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Perché non dimenticheremo mai Totò Schillaci: il suo vero “miracolo” non è stato Italia 90

Da piccolo e storto giocatore di un Sud che al tempo era ancora più Sud di oggi, Totò Schillaci diventa eroe nazionale perché ha dato la vita per ogni pallone.
A cura di Jvan Sica
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Non potremo dimenticare quell’estate, un’estate che ha avuto un paio di occhi spiritati, un corpo elettrico baciato dal fato e un grande sogno collettivo che ci ha spinto dove forse non eravamo in grado di arrivare. Italia ’90 è stato il grande sogno italiano di chi c’era e aveva qualsiasi età, dai 99 agli 0, perché enorme fu l’happening costante che ci cullò per un mese.

Un suo riverbero però è arrivato anche a chi non c’era, perché fu davvero troppo vivere un Mondiale in casa con la speranza sfumata alla penultima partita. Difficile spiegare cosa sono stati i Mondiali di Italia ’90, una parentesi profumata è la cosa che gli somiglia di più. Non dimenticheremo quell’estate e non dimenticheremo quindi Totò Schillaci, che di quell’estate fu il menestrello e il re, il grande chef e il cameriere, l’artista di grido e il manovale, perché tutti a un certo punto guardavamo solo e in un’unica direzione, quella del numero 19 in maglia azzurra traslucida.

Guardavamo verso un ragazzo di 25 anni e ci sembrava di specchiarci, l’italiano medio che indossa la maglia della Nazionale e segna a getto continuo, quasi senza un perché, senza una fine (almeno credevamo). Questo è stato ed è, a leggere i commenti dopo la sua morte, Totò Schillaci. Le keywords che associamo senza andare troppo in profondità sono “Totò” e “Italia ‘90” e va bene così.

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E invece no, perché uno che nasce nel quartiere di San Giovanni Apostolo a Palermo e inizia a giocare per la squadra dell’azienda municipalizzata dei trasporti del Comune non può essere solo il bagliore di un’estate. Schillaci vuol dire Italia ’90 ma il miracolo vero lui lo ha fatto non realizzando quei sei gol mondiali, ma arrivando a giocare quelle partite.

Schillaci non aveva la classe donata dalle divinità a Baggio, non aveva il corpo di Carnevale, non aveva la sapienza calcistica di Vialli, non aveva l’arguzia geniale di Mancini, non aveva la potenza di Serena. Eppure prese quel posto e ci accompagnò nel sogno perché voleva, fortissimamente voleva essenzialmente giocare. Era lì per il pallone e non per il calcio, quello è un altro tratto che ce lo ha fatto amare alla follia.

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Quando Scoglio lo incontrò a Messina gli disse che doveva fare solo quello che gli passava per la testa e basta, lo stesso Zeman gli concedeva libertà diverse rispetto agli altri calciatori. Da piccolo, storto e secondario giocatore di un Sud che al tempo era ancora più Sud di oggi, Totò Schillaci arriva al Messina, alla Juve, alla Nazionale perché mette tutto sé stesso non nella singola partita o nel torneo, ma perché dà la vita per ogni palla che può raggiungere o calciare, come se la vita non valesse nulla.

Per come giocava in campo Schillaci è durato poco. Prima di tutto è arrivato molto tardi, perché trovare tesori in quel Sud era difficile e le remore c’erano, ma poi perché per ogni scatto che faceva quel suo darsi completamente ha avuto un prezzo sulla longevità della carriera.

Schillaci si è costruito un viaggio quasi impensabile al tempo, ma non solo. Un viaggio in cui la velocità di partenza era zero, accelerando e sorpassando tutti in quel mese d’estasi e furore. Poi ha decelerato, si è fermato presto, ha cambiato diverse strade, ha spesso vagato senza un direzione. Ma quel viaggio resta nella nostra mente, un viaggio in cui Italia ’90 è un tratto ma non l’intera traiettoria, piena di paesaggi incantevoli e luoghi bui, come tutti i viaggi più belli, quelli che si ricordano.

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