Pato racconta la paura: “I tifosi volevano uccidermi, giravo in macchina coi vetri antiproiettile”
Ci sono dei momenti della nostra vita in cui ci si ferma a fare il punto: dove e come si è, il percorso fatto e quello da fare. A 32 anni Alexandre Pato è un calciatore che si sente al top, ma soprattutto è un uomo sereno. Dal febbraio dell'anno scorso gioca in Major League Soccer, con la maglia dell'Orlando City: in questa stagione per lui 3 gol e 3 assist in 14 partite. Il ‘Papero' che giovanissimo sembrava destinato a dominare il calcio mondiale, abbagliando i tifosi del Milan con i suoi scatti brucianti, non c'è più da un po' di tempo, ma la sua nuova incarnazione è più appagante e completa, come racconta il diretto interessato in un lungo intervento su The Players' Tribune.
"So cosa state pensando. L’ho sentito dire per 10 anni. ‘Cosa è successo a Pato?', ‘Perché Pato non ha vinto il Pallone d’Oro?','Perché Pato era sempre infortunato?'. Mah. Avrei dovuto rispondere a queste domande tempo fa. C’erano tantissime voci, specialmente a Milano. Facevo troppo festa. Non avevo voglia. Vivevo nel mondo delle favole. Quando volevo parlare mi veniva detto di ‘pensare al calcio'. Ero troppo giovane per controbattere. Davvero, ero solo un bambino. Quindi credo sia arrivato il momento di fare un po' di chiarezza. Ora ho 32 anni. Sono felice e in forma. Non provo risentimento nei confronti di niente e di nessuno. Se volete credere alle voci, non sono qui per farvi cambiare idea", è l'incipit del racconto della sua vita, che parte dai sacrifici fatti dal padre per fargli fare il provino nell'Internacional di Porto Alegre. La sua famiglia non nuotava nell'oro e tutto aveva un costo.
"La prima cosa che dovete capire è che ho lasciato casa molto presto. Forse troppo presto – spiega Pato – Quando hai 11 anni non sei pronto per il mondo. Parti per inseguire questo sogno ma sei solo e perdersi lungo la strada è davvero facile. Dio mi ha dato un dono, questo è chiaro. Non avevamo molti soldi. Mia mamma non poteva lavorare a causa di un mal di schiena, quindi mio padre doveva pensare al mio fratello maggiore, a mia sorella e a me. Stava fuori tutto il giorno per costruire autostrade. Avevamo da mangiare, ma non potevamo nemmeno permetterci i libri della scuola privata. Mi presentavo con le fotocopie. Davvero".
Al Milan sembrava che il mondo fosse suo, ma poi è cominciata la sequenza infinita di problemi fisici: "Amavo le attenzioni. Volevo che si parlasse di me. Ma sapete cosa è successo? Ho iniziato a sognare troppo. Anche se continuavo a lavorare duro, la mia fantasia mi portava in posti di tutti i tipi. Nella mia testa avevo già il Pallone d'Oro in mano. Non potevo evitarlo. È davvero difficile non lasciarsi travolgere. Avevo sofferto tanto per arrivare lì. Quindi perché non godersela? Quando vivevo nel presente ero inarrestabile. Ma la mia mente rimaneva incastrata nel futuro. Poi nel 2010 ho iniziato a essere infortunato tutto il tempo. Non avevo più fiducia nel mio corpo. Aveva paura di quello che la gente potesse dire di me. Andavo ad allenarmi pensando, Non posso infortunarmi. Se mi infortunavo non lo dicevo a nessuno. Una volta mentre stavo recuperando da un problema muscolare ebbi una distorsione alla caviglia e continuai a giocare. Era gonfia come un pallone ma non volevo lasciare la squadra. Uno dei miei difetti era che volevo accontentare tutti. La gente si aspettava che segnassi più di 30 gol a stagione, ma non potevo nemmeno entrare in campo. Potevo accettare che gli altri dubitassero di me. Ma quando il dubbio viene da dentro? È un'altra cosa".
Un altro momento molto difficile è stato al Corinthians, in Brasile, dove tutto è cambiato dopo un rigore sbagliato con arroganza: "Sono arrivato lì come una star. Quando guadagni tanto in Brasile, dove c'è molta disuguaglianza, i tifosi sono molto esigenti. Quindi quando sbagliai il rigore contro il Gremio facendo il cucchiaio nei Quarti di Finale della Coppa del Brasile, mi presi tutte le colpe. Sì, fu un rigore terribile, ma non è vero che i compagni mi picchiarono. Nessuno fece niente. I tifosi volevano uccidermi però. Giravo per San Paolo con delle guardie del corpo armate, e una macchina con vetri antiproiettile e gas lacrimogeni. I tifosi che entrarono nel nostro centro sportivo avevano mazze e coltelli. Fu spaventoso. Le cose che sono successe non dovrebbero far parte del calcio".
Il presente per Pato è gioia e appagamento: "La mia carriera sarebbe potuta andare diversamente? Sicuro. Ma è facile guardare indietro e dire cosa avrei dovuto fare. Quando sei lì certe cose non riesci a vederle. Quindi nessun rimpianto. Guardo il lato positivo. Sono in forma. Mentalmente sto alla grande. Amo ancora il calcio. Perché dovrei essere arrabbiato? Abbiamo solo una vita in questo mondo. Credo ancora che posso andare i Mondiali. Guardate gente come Thiago Silva e Dani Alves. Giocano ancora a 37 e 39 anni. Ma queste cose succedono quando Dio vuole. Io vivo solo il presente. Il resto lo decide Lui. Quando cresci realizzi cosa ti fa felice. Quando sono andato via di casa credevo che il calcio fosse tutto ciò che volevo. Sono andato in Italia, in Inghilterra, in Spagna, in Cina. Ho sofferto, ho pianto, ho urlato dal dolore. Ero sempre solo. Non sarò diventato il miglior giocatore del mondo. Ma lasciate che vi dica un po' di cose. Ho uno splendido rapporto con la mia famiglia. Sono in pace con me stesso. Ho una moglie che amo. Per come la vedo io, ho tanti Palloni d'Oro. Se la vita è un gioco, ho vinto".