Ottavio Bianchi e il Napoli, un legame indissolubile: “Se Conte è l’uomo giusto dipende da due cose”
Ottavio Bianchi ha legato indissolubilmente il suo nome a Napoli e al Napoli dal 10 maggio 1987. In quel giorno il la squadra azzurra festeggiò il suo primo Scudetto e in panchina c'era proprio lui. Con la maglia azzurra aveva anche giocato anni prima e poi la portò dove nessuno c'era mai riuscito prima. Sulla vetta del calcio italiano.
Nato a Brescia e con un passato da calciatore che non tutti ricordano, ha indossato le maglie di Napoli, Atalanta, Milan, Cagliari e SPAL oltre a quella delle Rondinelle; Bianchi ha fatto un lungo viaggio nel calcio italiano e ha girato praticamente tutta la penisola ricoprendo tutti i ruoli: da giocatore ad allenatore fino a dirigente e presidente.
Il suo carattere lo ha portato spesso ad avere rapporti non semplici con le personalità più forti dei suoi spogliatoi, l'anno dopo lo Scudetto col Napoli dovette fare i conti con i cosiddetti "ribelli di maggio" (Garella, Giordano, Ferrario e Bagni) che a fine anno vennero venduti; ma non ha mai modificato il suo essere "dittatore democratico" ovunque è andato.
A Fanpage.it Ottavio Bianchi ha parlato della stagione del Napoli, facendo diversi collegamenti con il passato e quanto vissuto da lui all'ombra del Vesuvio: dall'ammutinamento dello spogliatoio a Diego Armando Maradona passando per l'arrivo di Antonio Conte in azzurro fino alla parentesi a Roma con Dino Viola e il momento attuale del calcio italiano.
Il Napoli è stato disastroso nell'anno post-Scudetto. Un'attesa di trent'anni per indossare il tricolore chiusa col decimo posto. Che idea si è fatto.
"Una campionato così penso che nessuno se l'aspettasse. Un calo di tensione, un calo fisiologico è quasi normale per le squadre non abituate a vincere. Difficilmente si ripetono subito dopo. Le grandi squadre, quelle che fanno il filotti, come si dice in gergo, sono quelle che dopo la vittoria cominciano a preparare l'altra partita fin da subito. È accaduto al Napoli, ma se va indietro con gli anni si ricorderà che Cagliari, la Lazio, il Verona, la Sampdoria e il Torino, che non solo non hanno fatto un buon campionato ma negli anni successivi sono addirittura retrocesse. È una questione dovuta a tanti fattori, che non sono solo tecnico-tattici ma è proprio una faccenda ambientale, di clima, di tutto. Perché lei sa che la preparazione, la bellezza dello sport e in particolare del gioco del calcio è che quello che hai fatto il giorno prima non conta più niente perché incontri subito delle squadre che si preparano per battere. Per mantenere lo stesso stato di forma e di condizione non devi fare gli stessi allenamenti, non devi avere le stesse motivazioni, ma devi raddoppiarle. Tutti hanno avuto la loro importanza nella vittoria e ognuna delle componenti ha delle responsabilità in quello che è accaduto quest’anno. Quando comincia a disgregarsi una delle componenti è chiaro che a trarne vantaggio sono gli avversari. L'esempio più eclatante anche se è uno sport il singolo è la nobile arte, i miei maestri dicevano, per esagerare questo concetto, che se un campione del mondo a un certo punto non è preparato al meglio, non continua a migliorarsi, trova l'ultimo della serie e può perdere. Questo è la legge dello sport. Lo sport è bellissimo perché perché ogni giorno devi migliorarti, devi cambiare te stesso in continuazione".
Una volta capita l'antifona con Spalletti e Giuntoli forse era il caso di fare un ragionamento anche sulla squadra o è troppo facile parlare ora?
"Parlare per sentito dire è una delle cose che a me non sono mai piaciute. Già fai fatica a interpretare una cosa del genere quando sei dentro, immagini dall'esterno. Però, io parlo in maniera generale. Anche vedendo l'Inter e le altre squadre, non solo italiane ma europee, è una cosa fisiologica vedere questi cali ma una situazione come questa è difficile da spiegare".
Antonio Conte è l'uomo giusto per far ripartire il Napoli?
"Bisogna capire in che modo organizzeranno il lavoro a partire dalla società e vedere i giocatori che gli metteranno a disposizione. Anche in questo caso la sopravvalutazione dell'allenatore è abbastanza evidente, se sentissero queste domande i miei maestri…"
Perché dice questo…
"Perché fare l’allenatore… le faccio un esempio, ovvero quello che facevano loro a me. L'allenatore è come un pilota di Formula 1. Il pilota di Formula 1 può essere bravo, può essere Schumacher, Hamilton, ma se non gli dai una macchina con un motore non valido e con un telaio non buono, fa un giro ed è finita. Per essere il pilota numero uno devi avere tutto al top. Il gioco del calcio è uguale. Se tu non hai un'organizzazione societaria, se non hai un parco giocatori di grande livello, cosa vuoi fare? Puoi essere l'allenatore più bravo del mondo, ma diventa tutto più difficile".
Quindi lei non è d’accordo su tutta questa importanza che si dà agli allenatori oggi.
“A Coverciano dicevano che contavano il 10%”.
Quanto è diverso e in cosa il calcio di oggi rispetto a quello dei suoi tempi. È migliore o peggiore?
“Il calcio è in piena evoluzione, così come la vita sociale. Quando lei pensa che cos'era la medicina sportiva prima, non c’era niente. Ti facevi male e dovevi sperare che non fosse qualcosa di grave, altrimenti avevi compromesso tutto. Non c'era la scienza dell'alimentazione. Se analizziamo cos'era l'alimentazione pre-partita dei miei tempi e quella di adesso ci sarebbero gli estremi per una denuncia penale. Poi dopo c'è stato uno studio approfondito sui metodi di allenamento. Senza entrare nelle differenze tattiche….".
E perché no…
"Vuole che parliamo un po’ di tattica? Va bene. Prima si giocava con il libero, che voleva dire allungare il campo in maniera piuttosto evidente. A volte le due squadre erano da un'area all'altra, con alcuni calciatori abbastanza statici. Il centrocampista nel mio campo doveva marcare la mezza punta avversaria, che era spesso il calciatore più forte, ma quel calciatore giocava solo quando aveva la palla nei piedi e non correva dietro a nessuno. Il centrocampista doveva marcare e attaccare, quindi si faceva i km avanti e dietro mentre oggi il campo è più piccolo perché le squadre giocano in 20 metri. Questa è la più grande differenza. Alfredo Calligaris mi raccontava del suo percorso alla scuola di Lipsia e di Mosca per aggiornarsi ed era uno dei pochi occidentali ad essere ammesso ma arrivavano sempre fino a un certo punto, poi gli chiudevano la porta. Oggi è cambiato il mondo e se vuoi conoscere una squadra che gioca in Asia o in un altro posto è tutto più semplice e veloce".
Si è parlato spesso dell’ambiente intorno e dentro al Napoli quest’anno e lei dovette fare i conti con l’ammutinamento che portò all’allontanamento di quattro giocatori.
"Dicevano i miei amici giornalisti che ero un ‘dittatore democratico'. Ho sempre dato spiegazioni a tutti, anche all'inizio dell'allenamento spiegavo e parlavo con tutti per la finalità che si dovevano raggiungere e per i comportamenti da tenere. Certo, se non c’è la collaborazione allora diventa tutto più complicato. Chi non se la sentiva andava a lavorare da solo. Chi lavorava con me faceva quello che dicevo io. Alcune cose sono state enfatizzate come succede nel mondo del calcio, perché la maggior parte delle cose più interessanti e più intelligenti le tengono nascoste e fanno trapelare solo quello che vogliono. Non vanno mai a dire quello che di cui gli hai parlato per tutto il percorso insieme ma solo di uno specifico episodio quando trovano il giornalista compiacente. Questo dice tante cose".
Dalle sue parole traspare un rapporto straordinario con Napoli.
"Io sono andato via da Bergamo piccolo e mi sono trovato a Napoli in un contesto tutto diverso, in un mondo diverso. Devo dire che Napoli e i napoletani mi hanno accettato con tutti i miei difetti, non mi hanno mai tentato di cambiare. E io ho sempre accettato loro rispettandoli. Ho avuto pochi amici e quasi tutti fuori dal mondo del calcio, così quando ci vedevamo parlavamo pochissimo del campo e tutto il resto. Questo mi ha aiutato anche nei momenti difficili, che sono stati tanti: a Napoli si vinceva e c’erano polemiche, si perdeva ed era lo stesso. Io Napoli non me la sono goduta a pieno in quel periodo e vivevo solamente per il calcio: una volta alla settimana o due alla settimana andavo a cena con Pesaola e con due-tre amici ma nulla di più. Qualche evento ogni tanto, ma sporadico. Io sono molto legato, ma non per i successi sportivi che sono evidenti, ma proprio per i rapporti umani che si sono creati. Sono stato lì da calciatore, da giocatore, da dirigente".
Chi è stato Maradona per Ottavio Bianchi. E viceversa.
"Io sono ancora in contatto con Fernando Signorini e ci sentiamo ogni tanto. Lui è stato forse l'unica persona che Diego ha avuto vicino per davvero. Fernando ha detto ‘Con Diego faccio il giro del mondo, con Maradona neanche il giro dell’isolato’. Questa è la verità. Io ho frequentato, fortunatamente, Diego. Era fenomenale ed era un ragazzo squisito".
Non oso immaginare cosa le facesse vedere in allenamento.
"Sì, dell'aspetto tecnico ci sono cose che abbiamo visto in pochi, perché non c’erano le camere al campo come oggi ma faceva cose straordinarie tutti i giorni. Poi c’è questa sciocchezza che gira da tempo sul fatto che non si allenava mai. Nulla di più falso. I fenomeni fanno pratica ore e ore, si allenano".
Lei ha avuto a che fare anche con Sivori.
"La personalità di Sivori era qualcosa di incredibile. Era davvero un calciatore favoloso e poteva fare ciò che voleva. A volte stava male prima delle partite e se qualcuno gli diceva qualcosa rispondeva ‘Io esco lì fuori e devo fare Sivori, non rompermi'".
La sua Roma era una squadra interessante sotto molti punti di vista ma viene ricordata un po' meno rispetto alle altre. Perché secondo lei.
"Devo dire che io ci ho messo del mio. Io sono andato a Roma solo perché ho conosciuto l'ingegner Viola, che ha voluto a tutti i costi che andassi lì. A Roma io avevo avuto delle notizie molto dettagliate che mi sconsigliavano assolutamente di andare perché a quel periodo c'erano già le radio private che parlavano tutto il giorno della squadra e per uno come me che non aveva grande voglia di stare lì a parlare con tutti non era il massimo. Mi dissero di non andare perché avevo difficoltà. Viola, una persona estremamente intelligente e appassionata, mi disse che su tutto questo aspetto se la sarebbe vista lui e che io avrei dovuto solo allenare. Mi convinse ad andare a Roma perché c'era stato proprio questo feeling immediato con la famiglia Viola, che era l'ingegnere Viola e la moglie Donna Flora, con cui si creò subito un bel rapporto. Intelligenti, educatissimi, era un piacere stare con loro e così mi sono fatto convincere. Io ho continuato a non volere avere contatti e ho continuato a mandare via gente da Trigoria, ma le cose son diventate molto più difficili quando il presidente non è stato bene e poi è scomparso Lui faceva tutto prima, alla sera andava in giro a vedere se i fiori erano a posto nelle aiuole. Era veramente una cosa fantastica. Poi è successo tutto quello che sappiamo (la morte del presidente, ndr) e c'erano enormi pressioni su Donna Flora in merito alla cessione del club. Le solite cose no… alcuni che premevano da una parte, la politica dall’altra. Io non sono mai entrato nel meccanismo della mentalità romana, dove c'è la Roma e la Lazio. Lì era importante vivere in funzione dell'altro, invece io avevo una mentalità che pensavo a vivere in funzione della squadra, non mi interessava l'altro, volevo ottenere più risultati possibili per la mia squadra".
È vero che il presidente Viola le fece vedere il progetto di uno stadio della Roma?
"Sì, è vero. Aveva già fatto un progetto, mi aveva detto anche quanto costava e da lì è cominciato il declino di Viola con i politici. Perché lui aveva quest'idea di fare questo stadio e mi teneva aggiornato su diversi passaggi ma non a tutti piaceva. Non ricordo la zona ma sì, è vero. Viola davvero mi teneva aggiornato su tutte le cose e con lui parlavamo di tutto. L'unica cosa che non mi chiedeva era la formazione. Veramente un grandissimo presidente".
Lei ha vissuto diversi passaggio di proprietà mentre era allenatore. Come la squadra vive questi periodi del genere?
"Io ho iniziato ad Avellino, che passò da Sibilia all’avvocato Pelosi che è tuttora un mio carissimo amico. Poi ci sono stati quelli di Roma, Inter etc etc. In quel momento capisci cosa vuole dire essere solo al comando. Alcune erano situazioni davvero complicate e tutti scappavano ma quando tu poi mettevi questa barca al posto dopo volevano risalire. Allora lì cominciava l'effetto contrario. Su questo sono stato un po’ sfortunato perché spesso ho lavorato con squadre che non avevano una società forte alle spalle o che stavano passando di mano, quindi mi è toccato fare il parafulmine e andare avanti per la mia strada".
Lei ha fatto il giocatore, l'allenatore, il dirigente e anche il presidente.
"Tutto".
Il tifoso?
"No, quello mai".
Il calcio italiano ha portato due squadre in finali europee quest’anno dopo le tre dell’anno scorso e vari risultati positivi delle selezioni giovanili azzurre. Siamo troppo critici nei confronti del calcio italiano o siamo sempre così indietro rispetto agli altri.
"Se la Nazionale è l'espressione del nostro calcio allora dobbiamo farci qualche domanda perché per la prima volta non ci siamo qualificati a due campionati del mondo di fila. Il problema è profondo ed è una domanda per cui ci vorrebbe un libro. Io credo che il calcio debba essere analizzato anche in relazioni ai fatto sociali del paese, che ha una cultura, una storia, una tradizione. Noi abbiamo perso completamente la nostra idoneità. Perdendo questa identità siam diventati anche meno attrattivi perché prima i migliori giocatori al mondo venivano da noi e adesso non più. Anche sul calcio giovanile andrebbe fatto un ragionamento profondo perché i ragazzi hanno bisogno di giocare e con loro bisogna avere pazienza. Spesso i vivai vengono utilizzati dagli allenatori come dei trampolini di lancio e quindi si bada poco alla formazione e più al risultato".
Quello che dice è molto interessante. Quanto è grande la differenza tra allenatore e insegnante di calcio.
"È enorme, è tutta un'altra cosa. Tutta un'altra cosa. Purtroppo, come ho già detto, adesso gli allenatori lavorano con i ragazzi per iniziare il loro percorso ma questo non aiuta i vivai. Quando mi capitava di girare di più per l’Europa mi è capitato di assistere a partite di ragazzini in cui non veniva preso il punteggio. Era un buon modo per mettere i ragazzi in relazione anche allo sport".
Ultima cosa. Lei è di Brescia e vive a Bergamo da tanti anni. L'Atalanta è, ormai, una realtà europea non è più provinciale mentre il Brescia arranca ec non riesce ad avere un progetto calcistico vero da diversi anni. Perché, secondo lei?
"È sempre stato così. È un discorso che faccio sempre con gli amici bresciani. Quala domenica dicono ‘noi andiamo all'Atalanta’. È una questione identitaria vera. Anche se siamo a 50 chilometri da Milano, qua vanno a vedere l'Atalanta perché tengono molto alla loro identità. Lo fanno in maniera completamente diversa ma hanno lo stesso sentimento che ho rivisto solo a Napoli. A Brescia, invece, è l'opposto anche se hanno molte disponibilità economiche: lì prendono e vanno a vedere la Juve, il Milan e l’Inter. Il Brescia è sempre in secondo piano. Io ho fatto l’allenatore dell’Atalanta in Serie C e allo stadio c’erano 15.000 persone. Non so se ho reso l’idea".