Natali Shaheen lotta contro i pregiudizi nel calcio e l’indifferenza per la guerra a Gaza: “È orribile”
Natali Shaheen è una calciatrice palestinese, ex capitana della sua nazionale, che da qualche anno risiede a Sassari, dove studia e coltiva ogni giorno la sua passione per il calcio. È stata la prima calciatrice palestinese a giocare in Europa e nel 2023 ha ricevuto il Premio Internazionale Sport e Diritti Umani di Amnesty Italia e Sport4Society "per la sua determinazione e il suo impegno nella difesa dei diritti umani e del diritto allo sport, che dovrebbe essere accessibile a tutti, indipendentemente dalle condizioni economiche, sociali e di genere".
Nel 2022 ha pubblicato il libro "Un calcio ai pregiudizi", basato sulla sua tesi di laurea in cui mostra le difficoltà economiche, culturali e politiche che le donne palestinesi devono affrontare per giocare a calcio: un viaggio che parte dai check point dei territori occupati della Palestina e passa per le difficoltà incontrate nel suo percorso di formazione culturale e sportiva fino ai campi della Sardegna e alla sua vita attuale.
A Fanpage.it Natali Shaheen ha parlato del conflitto Israelo-Palestinese e del suo percorso nel mondo del calcio, dagli inizi in Palestina fino all'approdo in Italia.
Come sta vivendo questo momento, sapendo quello che accade nella sua terra.
"Fisicamente sto bene e tutti quelli che conosco anche, ma non è facile. Tutto quello che sta accadendo è orribile, veramente. Quindi pensare a tutto quello che sta succedendo, veramente fa stare male. Non è facile per niente. Tutto questo nonostante io non abbia un familiare a Gaza, non conosco quasi nessuno, ma veramente ti spezza il cuore. È terribile".
Da quanto tempo non vede la sua famiglia.
"Sono tornata da pochi giorni. Sempre con il terrore di essere bloccata lì e non di non riuscire a rientrare. Perché quello che è successo è che io ero in viaggio, io sempre vado dalla Giordania e poi da lì passo i confini con l'Israele e poi arrivo a Gerico. Quando ero in viaggio da qui, gli israeliani hanno chiuso e in quel momento nessuno può entrare né uscire. Ero già partita. Quindi sono arrivata lì, abbiamo fatto due open day in Giordania e poi hanno chiuso tutto. Avevo il terrore di non riuscire né ad entrare né ad uscire. Sono andata solo per tre giorni e poi sono tornata qui. C’ero stata a settembre, perché io faccio tanti progetti sportivi con i ragazzi di Gerico per promuovere lo sport, dare possibilità a ragazzi di avere un'organizzazione su cui contare. Ero lì a fine settembre e ai primi di ottobre, è scoppiato tutto quando ero lì".
Ah, lei eri là quando c'è stato l'attacco, quindi…
"Nonostante siamo lontani, in Cisgiordania ci sono i coloni israeliani tutti attorno. Due giorni fa la mia famiglia per esempio è andata a Betlemme perché siamo metà di Betlemme e metà di Gerico. All’andata tutto a posto e poi al ritorno sono stati bloccati dai coloni israeliani che hanno iniziato a tirare i sassi alle macchine palestinesi. Hanno bloccato la strada ed erano armati. Poi sono andati i soldati israeliani a proteggerli ma hanno chiuso tutto e nessuno poteva andare da nessuna parte. Avevo avvisato la mia famiglia che non potevano tornare grazie a Telegram, che loro non hanno. Altra cosa da dire, se gli israeliani sanno che tu hai Telegram ti fermano e ti tengono in custodia. Il giorno dopo hanno aperto e sono tornati al lavoro. Non è solo un episodio, sono cose che succedono continuamente ed è assurdo tutto quello che sta accadendo. Se sei per strada rimani bloccato in strada e non puoi andare avanti o indietro, rimani lì per quanto decidono loro".
La Palestina non è propriamente conosciuta per motivi legati allo sport. Da dove nasce la sua passione per il calcio.
"Diciamo che per la Palestina era una cosa strana, soprattutto tanto tempo fa che una ragazza giocasse a calcio e soprattutto a Gerico. Io sono capitata per fortuna in una scuola privata, quindi era l'unica scuola mista, perché da noi le scuole sono separate, e durante la lezione di educazione fisica sai i bambini vogliono giocare solo a calcio. L’insegnante era mio cugino e ci insegnava a giocare a calcio più di altri sport. Avevamo un campetto di asfalto e io andavo a giocare con loro perché avevamo 6 anni e nessuno diceva niente, nonostante alle bambine veniva insegnato che il calcio fosse uno sporto per maschi. Nel 2001, quando è scoppiata la seconda intifada non si poteva andare da nessuna parte, c'erano checkpoint da tutte le parti e a Gerico non potevamo andare nemmeno al campetto piccolo che avevo di fronte casa. Ma l'unico divertimento era lì: non c'era la musica, né il cinema, e non si poteva coltivare nessun hobby".
Quel campetto era la sua seconda casa, in pratica.
"Praticamente sì. Mi sono innamorata sempre di più di questo sport e dato che molti miei amici non avevano il pallone chiamavano sempre me che ne avevo uno. Giocavamo quando c’era la pausa a scuola e in ogni momento che ne avevamo la possibilità. Non c'era la scuola calcio, non esisteva niente, non c'era una squadra femminile in tutta la Palestina ma quando io sono diciamo cresciuta c'era la seconda Intifada, quindi non c'era niente, neanche sport per i maschi".
E posso chiederle quali sono state le difficoltà più grandi che ha incontrato.
"Diciamo c'è anche la difficoltà culturale e di tradizione. Per esempio, le ragazze non possono mettersi in pantaloncini tutte queste cose ma alla fine io me ne fregavo non ascoltavo nessuno. Si facevo tutto con la mia testa e poi ero sostenuta dai miei genitori, quindi diciamo questo non è stata la cosa peggiore. Ma per tante altre ragazze è questo l'ostacolo forse più grande, il più importante. Con gli anni il peso della guerra è diminuito, è diventato un po’ come adesso, con un’occupazione che ci circonda da tutte le parti e non sai se e come puoi spostarti, ma piano piano hanno iniziato a creare delle squadre femminili e i miei genitori volevano che io giocassi a calcio: andare a Ramallah non era semplice per una bambina, soprattutto fare tutti questi viaggi da sola. All'inizio ti accompagnano i genitori e poi dopo devi fare tutto da sola con i checkpoint e tutto quello che comporta l’occupazione. Alla fine per me era un sogno allenarmi e giocare a calcio, quindi ho detto che per realizzare il mio sogno dovevo rischiare e che non dovevo avere paura. Possono uccidere i nostri talenti, ma non uccidere i nostri sogni. Questo non lo possono fare".
Così è iniziato il suo percorso nel calcio più organizzato.
"Sì. Non è stato facile perché hai tanti ostacoli e devi mettere da parte la tua vita sociale, non esisterà più. Devi studiare e andare ad allenarti. Altro non puoi fare per tanti motivi. Il primo motivo è che devi andare con i taxi, perché noi non ci sono autobus ma sono taxi per sette persone che qualche volta si riempie in 5 minuti, ma qualche volta si riempie in 6 ore e non puoi saperlo; seconda cosa il checkpoint, non sai quante ore o quanti minuti ti fermano gli israeliani quindi dovevo partire tante ore prima. Mi portavo i libri per studiare così non sprecavo tempo. Il problema è che non puoi sapere cosa succederà quando sarai in viaggio. Qualche volta andavo e non potevo tornare perché il checkpoint era chiuso, gli israeliani decidevano di chiudere tutte le strade, e io dovevo dormire dalle mie compagne di squadra".
C’è un passaggio del suo libro in cui scrive: “Nell’Islam l’attività fisica per tutti, donne incluse, è presa in considerazione soltanto per tre principali ragioni: restare in salute, prendersi del tempo libero, essere pronti alla guerra”.
"Per la religione, di cui parlano tanti ricercatori e anche persone che la conoscono meno, fare attività è importante per le donne e deve essere pari e uguali all'altro sesso ma questo nella vita reale diventava un ostacolo perché per tradizione e cultura le ragazze non potevano giocare davanti ad un pubblico e mettere i pantaloncini non era possibile. Tanti anni fa non c'era quasi nessuno che giocava a calcio, poi le cose sono cambiate e ora tante ragazze giocano a calcio in Palestina. Negli ultimi anni il numero è in aumento ma dipende dalla zona: ad esempio Betlemme, Gerusalemme e nelle città grandi è più evidente mentre nei piccoli centri meno. Dipende anche dal posto da dove vieni perché la cultura cambia tanto: se vieni da una famiglia beduina, da una famiglia che abita in un villaggio piccolo o come me che viene da una famiglia di Betlemme. La mentalità è totalmente diversa. Piano piano si cambia, perché nelle scuole calcio adesso le bambine vanno a giocare a calcio anche con i maschi nelle città più grandi ma sono ancora poche".
È arrivata in Italia dopo due stage e grazie ad una borsa di studio del ministero degli Esteri italiano per un dottorato di ricerca a Sassari. Ricorda il suo primo approccio con il nostro paese?
"Quando ci hanno invitato per lo stage dell'associazione ‘Ponti non muri' nel 2015 sono stata qui per 18 giorni e mi sono allenata con una squadra maschile perché nello stesso anno era fallita la Torres femminile. Purtroppo non ho avuto la possibilità di giocare con loro. Poi mi hanno invitato di nuovo nel 2016 per un altro stage che si faceva sempre di estate. Ne hanno fatti quattro di stage e io ho partecipato a due, 2015 e 2016. Mi sono laureata in scienze motorie e poi l'associazione mi ha detto che c’era la possibilità di fare una richiesta al consolato italiano per una borsa di studio se avessi voluto venire a vivere in Italia e a giocare anche a calcio. Un visto per giocare a calcio da extracomunitario era un po' difficile ma si poteva trovare un’altra strada. Quindi io ho detto sì. Ho fatto la richiesta per fare il dottorato di ricerca, ho vinto la borsa di studio del Ministero degli Esteri e l'associazione mi ha aiutato con tutti i documenti. Non sapevo niente, quindi mi hanno aiutato a fare tutto. Non sapevo niente di italiano, quindi ho scelto come lingua della ricerca l’inglese. Una volta finita la tesi mi hanno chiesto se volessi fare un libro e io ho detto di sì. La maggior parte era nella tesi, quindi degli studi fatti, ma la parte scientifica, di analisi, l’ho sostituita con le interviste alle ragazze".
E come mai ha deciso proprio di rimanere a Sassari?
"Una volta finita la ricerca e dopo la nascita del libro io dovevo tornare a casa alla fine. Sono riuscita a trovare un lavoro e a rimanere qui dopo che mi hanno fatto il contratto, ma non è stato facile per niente. Una volta risolta questa cosa potevo lavorare anche sul libro e potevo continuare a giocare. Dopo la conversione del permesso di soggiorno ho scelto di stare qui perché ancora sto giocando e poi sto facendo questo giro per presentare il mio libro perché è importante per me, per far conoscere la situazione attuale e tutto ciò che affrontano le calciatrici nel mondo. Soprattutto in Palestina. Il ricavato del libro va all’associazione con cui facciamo dei progetti per dare possibilità alle ragazze meno fortunate e per far conoscere il gioco bello del calcio. Abbiamo già fatto due giornate di open day di calcio in Giordania con più di 150 ragazze, la maggior parte erano orfane. Abbiamo scelto l'orfanotrofio di Ar-Ramtha, che confina con la Siria, e l'altro a Madaba, dove c’erano quasi 60 bambine ragazze e 15 ragazzi. Vorrei riuscire a vendere altri libri per fare altri progetti come questi".
Adesso allena ancora o gioca soltanto.
"No, non alleno più perché il libro va bene e non riuscivo a fare più tutto. Nella stagione 2023-2024 sono tornata a giocare e basta. Sto giocando con la Real Sun Service di Sassari".
Quali sono i progetti futuri di Natali Shaheen.
"Sto facendo progetti in particolare di calcio sempre con l'organizzazione che si chiama ‘The Athlete's Table’, con cui abbiamo fatto già delle cose per dare la possibilità ai ragazzi e alle ragazze di poter fare sport. Abbiamo fatto due campi di calcio, due di basket e uno di arti marziali. Adesso stiamo lavorando su altri progetti per dare la possibilità a tanti ragazzi di poter praticare in maniera più semplice lo sport che li appassiona".
Un comunicato diramato dalle federazioni sportive palestinesi afferma che oltre 200 atleti e allenatori sono stati uccisi dall’esercito israeliano dal 7 ottobre 2023, in risposta all’attacco di Hamas. In Francia trenta parlamentari hanno chiesto al comitato internazionale olimpico di applicare per gli atleti israeliani le stesse sanzioni previste per russi e bielorussi, una partecipazione neutrale senza inno e bandiera. Il CIO non si è mai espresso. Crede possa essere un segnale?
"Non faranno niente, non prenderanno nessuna decisione contro l'Israele. Purtroppo è così. Quando questa cosa è successa con la guerra tra Russia e Ucraina hanno agito subito, senza guardare niente. Subito hanno messo il divieto per gli atleti russi e hanno fatto anche tante altre cose come la fascia della pace dei capitani, gli striscioni e tutto quello che abbiamo visto e ricordiamo. Con il genocidio che sta accadendo a Gaza neanche un minuto di silenzio è stato fatto per i bambini che sono morti in quel territorio. A volte mi viene da pensare che siamo differenti, diciamo così. Dipende dalla zona dove abiti, da dove vieni. A volte credo che gli animali sono trattati meglio rispetto a un palestinese, dei quali a nessuno importa se spariscono dalla mappa del mondo. Purtroppo è così, è davanti ai nostri occhi. È quello che sta accadendo, ma nessuno fa niente. È davvero una bruttissima sensazione".
Dopo il 7 ottobre e tutto quello che è successo dopo, si potrà mai arrivare alla pace?
"Non avremo la pace finché non saremo liberi. Ma quando saremo liberi? Come mandare via gli israeliani che sono venuti a prendere il nostro territorio, che ci hanno ammazzato e che hanno distrutto tutto? Non lo so, al momento la vedo impossibile. Quello che vorrei adesso è solo fermare il genocidio, fermare tutto quello che sta accadendo e poi spero che si possa lavorare per la pace e la libertà. Non solo per noi ma in tutto il mondo. Mi piacerebbe un mondo in cui non ci siano più differenze per etnie e popoli, dove tutti siamo uguali e possiamo spostarci senza andare incontro a pericolo. Senza nessuna frontiera, solo esseri umani".