Non è vero che non aveva la magia di Harry Potter. Una a José Mourinho è riuscita ma non è quella che gli avevano chiesto i Friedkin. Basta dare un'occhiata all'atmosfera dello stadio Olimpico quando ha giocato finora la sua Roma (e il riverbero in trasferta non è stato da meno) per spiegare cos'è stata l'esperienza dello Special One in panchina. Un plebiscito di pubblico e di cori, una marea giallorossa che pendeva dalla sua labbra, attendeva un suo gesto per scatenare l'inferno oppure tacere. Come un imperatore nel Colosseo, a un certo punto è sembrato avere ‘potere di vita o di morte' con un semplice movimento della mano. E di cenni ne ha fatti, nel bene e nel male.
L'aura di misticismo che l'ha circondato (e ha creato con sapienza di linguaggio, astuzia di pensiero, comunicazione dirompente al tempo dei social) ne ha fatto l'idolo perfetto della folla a prescindere dai risultati, che in campionato non sono stati esaltanti, e dalla proposta di gioco, tutt'altro che scintillante ma nel solco di quel morituri te salutant che gli è servito per compattare le sue legioni.
Squadra e pubblico insieme, un monolite che gli ha permesso di resistere alla bufera degli infortuni e di una rosa corta, agli investimenti di mercato dimensionati alle possibilità di bilancio e di trascinare la ‘magica'. È con Mourinho che la Roma ha conquistato il suo primo trofeo europeo (la Conference League) dopo 60 anni, l'ultimo fu la Coppa della Fiere nel 1961. È con Mourinho che è arrivata a un tanto così dal mettere le mani anche sull'Europa League, persa ai rigori col Siviglia (anche) per le furibonde polemiche arbitrali entrate nel corredo accessorio di una finale da sangue e arena.
Ma in hoc signo vinces s'è rivelato una pura illusione almeno per la strategia aziendale che la proprietà aveva in testa e per quella apologia del rumore dei nemici che il portoghese ha brandito (anche) nel corso della sua esperienza romana. Noi di qua, soli contro tutti, gli arbitri/gli avversari di là. Il fideismo del suo popolo l'ha protetto a lungo ma il saldo in termini sportivi, di crescita del brand è rimasto in negativo. E gli è stato fatale.
È cresciuta in maniera esponenziale la fama dello Special One ma, contestualmente, non la Roma né la mission industriale che la dirigenza americana aveva prefigurato. Più Mourinho sottolineava "questi siamo, di più non possiamo", più ingaggiava duelli verbali in mezzo al campo, incamerando cartellini e sollevando diatribe (come lui, staff e calciatori), sbottando in tv o addirittura esprimendosi in maniera polemica in una lingua diversa, più aumentava la frattura con la società.
Due sesti posti in campionato e un nono (quello attuale) sono ben lontani dall'ambizione della proprietà americana che ha speso per arrivare almeno in Champions e s'è ritrovata a fare i conti con un allenatore che s'è messo a fare le pulci pure all'autorevolezza e all'andamento economico dell'azienda che gli aveva assicurato un ricco contratto. E adesso è ai tituli di coda con effetto immediato.