Mihajlovic racconta: “Un avversario mi disse: ‘Prego Dio perché uccidano la tua famiglia’”
Ora che la malattia è solo un lontano ricordo, Sinisa Mihajlovic può guardarsi indietro e ripensare ai drammatici momenti che ha vissuto fino a pochi mesi fa con un piccolo sorriso stampato in volto. "Ammalarsi non è una colpa. Succede e basta e ti cade il mondo addosso – ha spiegato il tecnico del Bologna al ‘Corriere della Sera', in occasione dell'uscita della sua autobiografia – Ognuno cerca di reagire a suo modo. Io non sono un eroe, e neppure Superman".
"Sono uno che quando parlava così, si faceva coraggio. Perché aveva paura, e piangeva, e si chiedeva perché, e implorava aiuto a Dio, come tutti. Pensavo solo a darmi forza nell’unico modo che conosco. Combattere e non mollare mai. Chi non ce la fa non è certo un perdente – ha aggiunto Mihajlovic – Non è una sconfitta, è una maledetta malattia. Non esiste una ricetta, io almeno non ce l’ho. Tu puoi sentirti un guerriero, ma senza dottori non vai da nessuna parte. L’unica cosa che puoi fare è non perdere la voglia di vivere. Il resto non dipende da noi".
Sinisa e il 69enne senza fissa dimora
Nel libro appena pubblicato, Mihajlovic ha deciso di raccontarsi direttamente dal letto d'ospedale: "Non avrei potuto fare altrimenti. Ora sono a casa e mi godo ogni momento. Prima non lo facevo, davo tutto per scontato. Conta la salute, contano gli affetti. Nient’altro. La malattia mi ha reso un uomo migliore". Tra gli aneddoti raccontati nella sua autobiografia c'è anche quello di un certo Cgikjltfr Drnovsk, 69enne senza fissa dimora: "Al Sant’Orsola mi avevano dato questa falsa identità, per non attirare curiosi che disturbassero altri malati – ha concluso il tecnico – Dopo i primi due cicli di chemio, dimostravo altro che 69 anni. Trovavo ironico quel senza fissa dimora affibbiato a me, che in ogni stadio ero accolto dal coro di zingaro di m…".
Tra gli argomenti toccati nell'intervista, anche il ricordo della guerra nei Balcani: "Mi sono reso conto di ciò che stava per succedere quando prima della finale di Coppa di Jugoslavia del 1990, nel tunnel che porta al campo, Igor Stimac, croato, mio compagno di stanza nella nazionale giovanile mi dice: ‘Prego Dio che i nostri uccidano la tua famiglia'".