Messi contro Cristiano Ronaldo è la guerra dei mondi del calcio moderno
Sono diventati grandi insieme, Leo Messi e Cristiano Ronaldo. Barcellona-Juventus, ultima giornata di Champions League, non vale per la qualificazione agli ottavi, già raggiunta da entrambi. Ma può diventare l'occasione di un ritorno, di un nuovo duello.
“Abbiamo condiviso il palco per 15 anni, io e lui. Non so se è mai accaduto nel calcio. Gli stessi due tipi sullo stesso palco, tutto il tempo. Non è facile – spiegava alla cerimonia del sorteggio della Champions League 2019-20. – Non siamo ancora andati a cena insieme, ma in futuro chissà”. Sono loro, finora, il calcio del Duemila. Messi prosegue la strada percorsa da Maradona, l'icona del calcio del Novecento.
Simbolo del secolo breve, di un calcio da vedere dal vivo a orari fissi, di apparizioni da attendere, di distanze maggiori avrebbe detto Jorge Louis Borges, il più grande scrittore argentino, “perché lo spazio si misurava attraverso il tempo”. Messi abbrevia il tempo tra pensiero e azione così dilata il suo spazio di influenza. Ma persegue la normalità attraverso l'assenza.
CR7 incarna il calcio nell'era della riproducibilità tecnica, in cui tutto si sa e poco si conosce. Riempie lo spazio con le tracce della sua scintillante presenza. Per un film sulla sua vita, sarebbe servito Manuel de Oliveira, il più grande regista portoghese, talmente affascinato dal bisogno dell'uomo di “rendersi padroni del caos che si è” da scegliere questa frase di Nietzsche come epigrafe del suo “Viaggio al principio del mondo”. Per padroneggiare il caos, bisogna accettare chi siamo. E quello che siamo è come la gente ci vede. Perciò il senso della loro rivalità, che non ha visto praticamente mai gesti o dichiarazioni pubbliche di reciproca ostilità, si scrive negli occhi di chi li ha guardati con la divisa di un altro colore.
Messi, genio unico di una squadra-sistema
Le voci tracciano le differenze di stile, e raccontano un'identità di fondo: giocano per squadre che li rispecchiano, magnetizzano compagni e avversari. Messi avrà anche fallito come Che Guevara ma resta (per quanto, è tutto da vedere) simbolo del Barcellona che si dipinge come “màs que un club”. Il volto di una squadra con una visione collettiva di sé e del suo posto per la causa catalana. Messi è l'unicità nella molteplicità, e serve la molteplicità per contrastarlo.
La sintesi di Giorgio Chiellini al Corriere della Sera nel 2017 consente a tutti di penetrare il senso di una missione individualmente impossibile. “Nel momento in cui vuoi anticipare le sue mosse sei morto, perché ha una velocità di lettura che non ti permette di poterlo fregare. L’unico modo è limitarlo con il lavoro di squadra. Anche il migliore al mondo, se pensa di rubargli la merenda da solo, con lui non ha speranza”, ha detto.
Messi incarna una contraddizione, che spiega le sue due anime. La distanza tra le versioni blaugrana e albiceleste sta tanto nella distanza cromatica quanto nella lontananza sociologica di approccio al gioco. Messi, talento che abbrevia le distanze tra pensiero e azione, disegna un calcio geniale in una squadra come il Barcellona che alla base della sua identità pone il sistema davanti all'individuo. Una squadra in cui rappresenta un'eccezione ma non un'eresia.
Non si ritrova, leader che brilla per sottrazione e per assenza quando non baciato dalla luce dei riflettori, dentro un'Argentina che venera i suoi eroi e vive il calcio con accenti di venerazione per i suoi caudillos.
In quanto emblema di una squadra che è un sistema, o come tale si racconta, Messi richiede un sistema uguale e contrario per essere contrastato. Micah Richards, difensore visto anche in Italia con la Fiorentina che ha giocato 179 partite nel Manchester City e li ha affrontati entrambi, ne sintetizza le differenze. “Mi ricordo che ho giocato contro Cristiano Ronaldo all'Old Trafford e ho fatto bene, sono riuscito a contenerlo – ha detto -. Messi invece no, è di un'altra pasta, non gli sono riuscito nemmeno a stare vicino. Ti porta in zone di campo dove non vorresti essere, quando pensi di averlo fermato, di averlo preso, si gira in un attimo. Non puoi avere una strategia contro di lui”. Non individuale, almeno.
Cristiano Ronaldo, macchina individualista che si marca a uomo
Difendere contro Messi è un lavoro di squadra, l'ha spiegato anche Giorgio Chiellini. Sono in pochi a stargli dietro. L'argentino ancora ricorda come un incubo Pablo Maffeo, allora ventenne del Girona che lo marcò nel 2017 come Gentile marcò Maradona al Mundial del 1982. “Sai cosa mi ha detto Messi? – spiegava Maffeo a un compagno di squadra dopo la partita – Che giocare così fa schifo”. Non a caso l'ha indicato come il difensore più duro che ha incontrato.
Nel riflesso degli altri, in questo caso degli avversari, si legge la propria identità in frantumi di specchi. Contro il Barcellona si difende di squadra perché per chi gioca nel Barcellona la squadra viene prima del singolo. Il modello, non a caso, ha bruciato individualisti più affini all'immagine ipertrofica di CR7. Il primo riferimento è, naturalmente, a Zlatan Ibrahimovic, catapultato come un'extraterrestre nel pianeta di Guardiola. Non è riuscito a cambiarlo, ma non l'hanno nemmeno cambiato. Lo sanno entrambi.
Cristiano Ronaldo, brand da 750 gol, emblema di un calcio capitalistico per lupi di Wall Street, è l'unicità davanti alla molteplicità. “Contro di lui, la marcatura a uomo può anche funzionare – ha spiegato Jerome Boateng a Sport Bild – perché poggia soprattutto sulla potenza fisica. Anche se negli anni è molto cambiato come giocatore, si concentra più sulla finalizzazione e ha un grande senso dell'anticipo”. Da giovane, ha ammesso John O'Shea, terzino irlandese a lungo al Manchester United, per marcare CR7 serviva la bombola d'ossigeno.
L'immagine che più si associa al portoghese è quella della macchina, per raccontare un corpo in perfetta efficienza, manifesto di un professionista che a se stesso ha imposto la perfezione come standard da ostentare. Una storia per farsi amare. “Contro di lui – ha spiegato Dani Alves, terzino brasiliano ex Barcellona e Juventus – devi essere al 100% sempre: se sei anche solo al 99% ti fa sembrare uno stupido in campo”.
Rio Ferdinand, ex bandiera del Manchester United, in un'intervista a FourFourTwo nel 2016 ha spiegato come si contrastano i grandi attaccanti del calcio moderno. Anche nelle sue parole, passa la distanza filosofica tra i due campioni che polarizzano l'era contemporanea del calcio globale. Conferma l'idea che la marcatura di Messi può essere solo collettiva. “Andargli vicino non porta ad alcun risultato, per difendere serve un lavoro di squadra” dice. Ma quando passa a Cristiano Ronaldo, l'attenzione è tutta sul singolo, sull'individuo chiamato a sfidarlo, sull'uomo contro la macchina.
Icone del Money Football, più numeri che storie
“Quando prende palla, devi stargli addosso, devi marcarlo stretto”, consiglia a un difensore che si trovasse nella condizione di fronteggiarlo faccia a faccia. “Non permettergli di girarsi, perché finiresti nel suo mondo e non è un posto in cui ti piacerebbe stare. Non devi permettergli di comandare, di fare quello che vuole. Devi mettere il corpo nella posizione corretta per non farlo scappar via verso la porta”.
Questo consente anche una motivazione diversa, come spiega Neymar (che evidentemente non si è trovato a marcarlo, anche se sa cosa significhi trovarselo di fronte come avversario). Il brasiliano, che non nasconde di voler tornare a giocare con Messi, ha parlato di CR7 come di “un mostro” con effettiva e sincera ammirazione. “Quando con le mie squadre abbiamo affrontato Cristiano Ronaldo, dicevo ai miei compagni più giovani che non avevano niente da perdere. Se ti batte nell'uno contro contro uno, hai perso contro Cristiano Ronaldo. Ma sei fai bene, hai fatto bene contro uno dei migliori del mondo”. Il Real Madrid dei nuovi “Galacticos” e la Juventus multinazionale, le sue ultime due squadre, elevano la vittoria a elemento costitutivo della propria ragion d'essere e la ricercano attraverso l'efficientamento. Per questo hanno eletto CR7 come simbolo e brand di un “Money Foot-Ball” dai risultati strabilianti.
Icona di un modo di vivere il calcio, come hanno spiegato il regista Emir Kusturica autore di un premiato documentario su Maradona e l'allenatore Jorge Jesus, che aumenta la longevità e la riproducibilità. Ma riduce la trasmissione dei sentimenti e le storie che i campioni possono raccontare.