L’ultimo messaggio da brividi di Vialli per l’addio alla Nazionale: “Devo aiutare il mio corpo”
C'è un'immagine di Gianluca Vialli che resterà scolpita per sempre tra i ricordi più belli della Nazionale: è l'abbraccio con Roberto Mancini nella finale degli Europei. Lacrime sincere un gesto di affetto leale, genuino tra due amici che al calcio hanno dato tutto. Molto più della gioia per aver vinto il trofeo ai rigori contro l'Inghilterra, a margine di una finale sofferta. Quella commozione era il compimento di un'avventura, l'ultimo dono che una nuova vita gli aveva fatto nonostante le condizioni di salute per il tumore al pancreas.
La morte dell'ex attaccante è l'ennesimo lutto che stringe il cuore in petto: dopo Mihajlovic (deceduto a 53 anni per una grave forma di leucemia) se ne va un altro pezzo di quella generazione di giocatori che hanno caratterizzato gli anni migliori della Serie A. E ‘Mancio', che alle esequie di Sinisa era davanti a portare la bara, si sente ancora una volta un po' più solo perché certi dolori ti scavano dentro e ti lasciano senza parole.
Lui e Luca le presero assieme ai ricordi e ne fecero "La bella stagione", il libro scritto a quattro mani narrando le gesta da gemelli del gol alla Sampdoria. Il trionfo a Wembley, nello stesso stadio dove conobbero l'amarezza di una finale di Champions League persa contro il Barça, rappresentò la chiusura di un cerchio e il ritorno a quell'epoca eroica in cui sentivano che avrebbero potuto conquistare il mondo con tocchi di classe e gol.
Si erano ritrovati fianco a fianco, come ai vecchi tempi. Con qualche ruga in più e silenzi troppo duri da raccontare. Oggi non averlo più accanto è straziante, sembra la fine di tutto. Certe sensazioni non puoi spiegarle, certi vuoti fai fatica a colmarli, certe assenze non le accetterai mai.
"Fai le cose di cui sei appassionato e che ti piacciono. Per il resto non c'è tempo", raccontò Vialli in un'intervista a Cattelan spiegando come la patologia di cui era affetto avesse cambiato il suo modo di porsi nei confronti della vita e della famiglia quando sai che non morirai di vecchiaia e hai una scadenza. In quella frase è riassunta la nuova dimensione in cui si calò l'uomo, la lezione che imparò toccandone con mano il significato più profondo: "il concetto della morte, la paura di morire, serve per capire e apprezzare la vita".
Il ricovero a Londra dello scorso 20 dicembre arrivò dopo quell'annuncio che gelò il sangue nelle vene. La recrudescenza del cancro, quel compagno di viaggio indesiderato che lo accompagna dal 2017 e ha sperato si stancasse, lo costrinse a rivedere tutti i suoi piani: Vialli rivelò la necessità di sospendere tutti i suoi impegni perché disse – nella nota diffusa dalla Federazione – doveva concentrare tutte "le energie psico-fisiche per aiutare il corpo a superare anche questa fase della malattia".
Il messaggio vocale diretto ai vertici della Nazionale, le parole scelte con cura ed espresse per comunicare la sua scelta nella nota della Figc, misero un punto fermo rispetto a ogni cosa. Vialli sapeva che non aveva più tempo a disposizione, nemmeno immaginava se ce l'avrebbe fatta a scollinare il Natale e l'anno nuovo. Pensare al domani troppo più in là nel tempo gli era sembrato un azzardo.
Quando ha fatto la valigia ed è volato in Inghilterra per sottoporsi all'ennesimo ciclo di cure nemmeno sapeva se e come avrebbe fatto ritorno a casa. Aveva la faccia di uno che ha capito e un principio di tristezza in fondo all'anima perché Vialli lo ha sempre avuto chiaro dentro di sé, non s'è mai fatto illusioni né ha ceduto alla retorica del guerriero: "Non sto combattendo una battaglia contro il tumore perché non credo che sarei in grado di vincerla, è un avversario molto più forte di me".