L’imbarazzo della Uefa al cospetto del Covid: i dubbi su Roma e le città di Euro 2020
Undici giugno è la data cerchiata in rosso sul calendario della Uefa. Allo stadio Olimpico di Roma ci sarà la partita inaugurale dell'Europeo 2020, posticipato a causa del Covid. La Nazionale di Roberto Mancini romperà il ghiaccio con la Turchia: lo farà a porte chiuse o, finalmente, verranno aperti i cancelli sia pure con capienza ridotta? Nessuno può dirlo con certezza al momento e l'Italia non è l'unico Paese che non può fornire adeguate garanzie. A distanza di un anno dallo scoppio della pandemia, buona parte del ‘vecchio continente' (comprese Germania e Spagna) è ancora nella morsa dei contagi, impaludata nel piano vaccini e con la necessità d'imporre strette alla vita sociale come unica strategia di contenimento per la diffusione del virus.
La Uefa aveva chiesto alle associazioni dei Paesi ospitanti di presentare un piano per l'accoglienza degli spettatori entro il 7 aprile. Inghilterra (Londra), Scozia (Glasgow), Olanda (Amsterdam), Danimarca (Copenaghen), Romania (Bucarest) e Russia (San Pietroburgo) hanno risposto "presente" ma la conta è stata tutt'altro che incoraggiante: la maggior parte delle Federazioni, loro malgrado, sono arrivate impreparate all'interrogazione. L'Irlanda (Dublino) s'è tirata indietro. Spagna (Bilbao), Germania (Monaco di Baviera), Ungheria (Budapest) e Azerbaijan (Baku) oltre all'Italia (Roma) hanno mosso eccezioni.
La condizione di emergenza sanitaria è tale che dire sì al ritorno sugli spalti del pubblico è un azzardo a causa della situazione contingente. Hanno chiesto e ottenuto tempo. Il comune denominatore è: valutare tra qualche settimana qual è l'evoluzione dei contagi e poi prendere una decisione. L'Uefa è intenzionata a chiudere la questione nella riunione del Comitato Esecutivo fissata per il 19 aprile con la possibilità di attendere ancora un po' prima del redde rationem per tracciare il quadro organizzativo. Sì o no, il rischio è vedersi tagliati fuori come ammesso dal presidente, Ceferin.
Le date (11 giugno – 11 luglio, giorno della finale) per ora rappresentano l'alfa e l'omega delle buone intenzioni scandite dal calendario e dall'esigenza di ripartire con lo spettacolo calcio, che deve continuare e non ha alternative. Da un lato il business che non conosce sonno, soste né (troppe) attenuanti, dall'altro il baratro di un'azienda che si ritrova coi conti in rosso per il riflesso esiziale della crisi economica portata (anche) dalla pandemia.
In Italia l'altolà del Comitato Tecnico Scientifico del Governo italiano ha gelato le ambizioni della Federcalcio. Dire sì adesso all'accesso del pubblico allo stadio Olimpico significa, di fatto, riaprire tutto, anche i ristoranti, i teatri, i cinema. E nessuno oggi è in condizioni di decidere cosa accadrà a giugno. Discorso chiuso e impossibilità di ospitare l'evento anche con la presenza di una percentuale di spettatori? No, semmai rinviato di qualche settimana "alla luce dell'evoluzione del quadro epidemiologico e dell'andamento della campagna di vaccinazione in corso in Italia" è la posizione del Cts che ha bloccato il piano della Uefa.
L'obiettivo della Federazione continentale è avere una capienza di almeno il 20 e il 25% dell'Olimpico. Una quota che lo stesso Cts potrebbe decidere di ridurre ulteriormente. La Figc ha ipotizzato anche l'utilizzo di una app che permette di riconoscere le persone con tampone negativo o vaccinate. Ma in un Paese che conta ancora 621 morti e un numero di contagi poco rassicurante non è logico né prioritario ipotizzare scenari "ludici". E il fatto che la Nazionale si sia trasformata, al netto della rigidità dei protocolli, in un focolaio/lazzaretto (27 positivi su una delegazione di 80 persone) tra cui 8 calciatori non è un segnale incoraggiante.