Le tante vite in una di Diego Armando Maradona: “Il migliore di sempre”, “Ha cambiato la storia”
Nato il 30 ottobre del 1960, giorno in cui l'Argentinos vinse per 3-2 sul Velez Sarsfield facendo registrare poi la sua miglior stagione fino al suo arrivo in prima squadra, Diego Armando Maradona aveva legato in maniera naturale il suo destino al Bicho (nomignolo con il quale è conosciuta la società calcistica in Argentina).
Pioveva tantissimo l'11 marzo 1969 a Buenos Aires quando Alberto Perez, poco più che ventenne e da poco entrato a far parte del consiglio diretto dell'Argentinos, si sarebbe conto che quello che aveva davanti non era solamente un giovane promettente. Il giovane dirigente rimase estasiato la prima volta che vide il Pelusa muoversi in campo, come racconta in esclusiva a Fanpage.it: "Dal primo momento in cui lo vidi toccare la palla, sapevo che sarebbe diventato un fenomeno, ma non pensavo che avrebbe cambiato così tanto la nostra storia. Prima di Maradona, l'Argentinos Juniors non aveva storia e nessuno ci rispettava. Non era il River o il Boca. Dopo di lui, invece, il vento è cambiato, tanto che siamo stati la prima squadra argentina a essere invitata al torneo di Viareggio, nel 1981.".
Oggi conosciuto come il semillero del mundo, ossia la fabbrica di giovani calciatori di qualità (con Riquelme, Redondo e Cambiasso come altri esempi), l'Argentinos continua a vivere della gloria di quegli anni '80 in cui il mancino di Fiorito avrebbe cambiato il destino di una piccola società, portandola a lottare per obiettivi ambiziosi praticamente da solo. "All'epoca l'Argentinos era una squadra di quartiere, un club artigianale. Ma quando Diego irruppe nella prima squadra a neanche 16 anni iniziammo a venire subissati da richieste di abbonamenti. Eppure, nessuno ricorda chi accompagnava Diego in campo, lui era l'Argentinos", ricorda Pérez, il quale nel 1976 fece firmare il primo contratto da professionista a Maradona, al quale diede anche in usufrutto una casa a due piani nel quartiere della Paternal, a cinque isolati dallo stadio che oggi porta il nome del numero 10 argentino.
Più forte dei calci
Nei primi anni di carriera il giovane fantasista dovette far fronte alla durezza delle entrate dei rivali, un dazio da pagare per il suo estremo talento nel saltare l'uomo. "Una volta, nel 1977, andammo in autobus a giocare a Santa Fe contro il Colón, una nota squadra di picchiatori. Io gli dissi di fare attenzione, lui mi rispose ‘la villa è molto peggio, Alberto', sorridendo e ricordando a tutti da dove fosse arrivato". In quegli anni iniziò a prendere forma un fenomeno oggi consolidato, ma totalmente inedito all'epoca: "La gente cominciò a essere tifosa di Diego, non della squadra. In questo, paradossalmente, siamo stati penalizzati" dice Perez, il quale è rimasto in contatto con Maradona anche in futuro, recandosi anche a Napoli dove "non mi sono mai emozionato così tanto per una partita di calcio", riferendosi a uno scontro al San Paolo con il Milan come rivale. Quegli anni in cui le tante botte forgiarono il carattere vincitore di Maradona sarebbero stati solamente l'antipasto di quanto Diego avrebbe dovuto consumare in futuro.
Qualche stagione più tardi, con la maglia del Boca, il 26 luglio 1981 gli Xeneize si recarono nuovamente allo stadio del Colón di Santa Fe, il famoso cimitero degli elefanti, così chiamato per via delle tante grandi squadre che ne uscirono con le ossa rotte e una sconfitta. Miguel Angel Brindisi, allora compagno di Maradona al Boca, riavvolge il nastro di una giocata fenomenale: "Diego scattò sulla fascia sinistra e arrivato sul fondo fu travolto da un tackle assassino che avrebbe lasciato a terra chiunque, ma lui si rialzò in un attimo e dopo un altro dribbling lasciò partire un cross perfetto che Escudero tramutò in gol. Oltre a essere stata una giocata fondamentale per noi , che avremmo poi vinto il torneo, fu un gesto atletico e tecnico unico, qualcosa che non ho mai visto fare a nessun altro". Una giocata impensabile, che pose le fondamenta della vittoria del torneo da parte della squadra gialloblu. Diego aveva già dimostrato di essere più forte dei calci.
Rieducazione
Nell'estate del 1982, dopo che la dittatura argentina che aveva proibito il suo passaggio al Barcellona nel 1979 stava iniziando a perdere colpi, Diego passò finalmente al calcio europeo, atterrando in quel Camp Nou che più che stadio sembrava un teatro, per via della freddezza dei tifosi locali, i quali erano comunque molto esigenti. Marcos Alonso, suo compagno di squadra dell'epoca, ricorda un episodio: "Eravamo ad Andorra in ritiro estivo e dopo una sessione di allenamento senza palla, Diego si guardò intorno. Era timido e non parlava con nessuno, e voleva sfogare con un pallone che però non trovava. Allora prese due calzettoni, li arrotolò e iniziò a palleggiare, per lo stupore di noi tutti". Il Maradona di Barcellona fu fulminante per giocate singole, come il gol al Bernabeu contro il Real Madrid nel quale dribblò il difensore del Real Madrid Juan José sulla linea di porta o il lob contro la Stella Rossa al Maracaná di Belgrado, ma non trovò il miglior giardino per fiorire.
Le critiche della borghesia catalana sulla sua vita notturna, l'epatite virale e l'entrataccia di Andoni Goikoetxea ne avrebbero condizionato l'esperienza in blaugrana. A quell'epoca Fernando Signorini, un preparatore fisico venuto dalla località di Lincoln, a 300 km da Buenos Aires, si era stabilito a Barcellona per poter seguire gli allenamenti della squadra di Cesar Luis Menotti. Il tecnico campione del mondo nel 1978, che non aveva convocato l'allora 17enne Maradona a causa di un'eccessiva presenza di numeri 10 nella sua nazionale, l'avrebbe poi allenato ai mondiali del 1982 in Spagna e in blaugrana. "Diego l'ho visto crescere, avevo capito subito che potenziale aveva. Oggi è uno dei Re del calcio insieme a Cruyff, Pelé e Di Stefano. Gli altri sono lontani anni luce da questi quattro", afferma Menotti a Fanpage.it.
A Barcellona, durante il recupero dal grave infortunio alla caviglia, Diego avrebbe cementato l'amicizia con Signorini, per il quale creò per primo il ruolo di preparatore atletico personale. Il Profe, come lo chiamava Diego, fu il complemento ideale per la trasformazione del calciatore in una stella assoluta, e fu fondamentale per aiutarlo a rendere allo stesso modo nonostante la mobilità ridotta del 30% all'arto offeso, tra l'altro quello del suo piede preferito, il sinistro.
Megl' e Pelé
Una volta arrivato in Serie A Maradona avrebbe notato l'asprezza delle marcature all'italiana. Ma c'era un altro problema da risolvere: il suo piede sinistro doveva fare i conti con una notevole perdita di elasticità. Nei suoi primi giorni napoletani, dunque, con Signorini misero a punto una serie di allenamenti specifici dopo quelli di squadra: "Diego provava a calciare col sinistro con o senza barriera, da diverse angolazioni, in modo da provare a calciare a giro, come meglio gli riusciva. I primi tiri furono tutti sbilenchi, ma poco a poco riuscì ad aggiustare il tiro, e in pochi minuti aveva già imparato ad andare oltre quell'importante handicap che l'infortunio gli aveva provocato", afferma a Fanpage.it Signorini, il quale ricorda ancora Diego come "un animale da competizione", soprattutto per come riusciva ad adattarsi alle nuove situazioni.
Su quello stesso campo sterrato del centro Paradiso di Soccavo, un anno dopo il 10 azzurro sarebbe stato obbligato ad alcune sessioni extra dal tecnico della nazionale argentina Carlos Salvador Bilardo, che lo aveva nominato capitano già da tempo. Il mondiale del 1986 in Messico si avvicinava e il CT argentino voleva il suo numero 10 non solo tirato a lucido ma anche prontissimo ad affrontare avversari che gli arrivassero d'ogni lato del campo. E fu in quel periodo che fu messo in embrione il secondo gol all'Inghilterra, come ricorda lo stesso Bilardo: "Decisi di allenare Diego a qualsiasi tipo di marcatura a uomo, e quando ci allenavamo da soli mi appiccicavo a lui da dietro per abituarlo a doversi girare nello stretto per evitare anche i falli".
Quell'allenamento assiduo diede i suoi frutti un anno dopo allo stadio Azteca di Città del Messico. Il 22 giugno 1986 è rimasto nella memoria di tutti gli appassionati di calcio, ma anche dell'arbitro di allora, il tunisino Ali Bennacer, diventato poi un grandissimo amico dell'argentino: "Nell'estate del 2015 Diego era qui a Tunisi per un evento pubblicitario. In qualche modo sono riusciti a metterci i contatto e ci siamo visti dopo 29 anni. Mi ha regalato una bellissima maglia con una dedica ‘Ad Alí, mio amico eterno'. Non ho mai visto un talento come il suo, e in quella partita ha ingannato tutti, persino me", asserisce Bennacer a Fanpage.it. L'ex arbitro tunisino, ormai tranquillamente in pensione, ricorda quanto accaduto nei due momenti storici di quel match: "Sul primo gol mi sono affidato al mio assistente di linea, il bulgaro Dotchev, sul quale poi si è abbattuta la furia degli inglesi nel post partita. Per quanto riguarda il secondo sono rimasto estasiato. Avevo il fischietto in bocca per tutta l'azione pensando che l'avrebbero buttato a terra. Ma ci sono riusciti solo quando ha segnato…".
Oltre il calcio
I suoi trionfi con il Napoli sarebbero stati storici. Ma durante la sua trionfale campagna italiana Maradona si era fatto anche molti nemici. Nemici che si sarebbero fatti sentire al mondiale del '90, come ricorda il suo ex compagno di nazionale Pedro Troglio, con un passato alla Lazio e al Verona a cavallo tra gli anni '80 e '90: "Durante quel mondiale ci sentimmo stranieri quando giocavamo al Nord, e in casa al Sud. Diego non era solo il miglior giocatore in assoluto ma generava qualcosa di unico attorno a sé, e fu capace di portare dalla sua parte metà del San Paolo nella sfida contro l'Italia, difendendo Napoli, la città dove era felice". Prima, al delle Alpi di Torino, Maradona aveva giocato infiltrato con la caviglia sinistra, la solita, gonfia come un limone. Il gol dell'unica vittoria dell'Argentina sul Brasile ai mondiali fu originato da un'azione individuale del 10, che Troglio vide dalla panchina: "Mi avevano sostituito dopo un brutto fallo di Alemao che mi aveva aperto la gamba, e mentre mi curavano Diego partì da solo e lasciò Caniggia solo davanti a Taffarell. Dopo il gol andai a festeggiare insieme a tutti i miei compagni, dimenticandomi del sangue che sgorgava dai calzettoni, ma tant'è…".
Nel ricordo di Troglio c'è un calciatore che ha rappresentato un unicum nel suo genere: "Diego è stato il migliore di sempre. Oggi sarebbe impossibile che uno come Messi vada a giocare al Napoli. Lui è venuto dal basso, aveva un carisma assoluto, andava oltre il calcio. E non dimenticherò mai quanto lo amavano i napoletani: nel Natale del 1989, quando ero suo ospite la gente andò fino sotto casa sua per festeggiare insieme a lui, e noi ci affacciamo estasiati per quella dimostrazione d'amore. Con il golfo sullo sfondo…".