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Le regole di Davide Ancelotti per non passare come “figlio di papà”: rimprovera Carlo, evita un luogo

Pregiudizi e un cognome pesante, Davide Ancelotti ha imparato a conviverci e sa come gestire certe situazioni: “Quando il calciatore verifica in campo che quanto gli hai detto è vero, allora guadagni la sua fiducia. Altrimenti è più difficile”.
A cura di Maurizio De Santis
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Sta lì solo perché l'ha piazzato suo padre. È un raccomandato. A parità di qualità, ha opportunità che altri non hanno. Davide Ancelotti "figlio di" è la cosa che più s'è sentito ripetere nel corso della carriera. Quella partenopea è la piazza in cui di più gli hanno pesare il rapporto con papà Carlo che, a sentire certe chiacchiere da bar, in azzurro era venuto "per prendere la pensione".

Per entrambi il vecchio adagio "Vedi Napoli e poi muori" ha funzionato al contrario: finita quell'esperienza con l'esonero per fare posto in panchina a Rino Gattuso, hanno ripreso a vincere. Anzi, a Madrid il cognome Ancelotti è garanzia di successo. E Davide ha mostrato di poterlo tenere sulle spalle senza rischiare di restarne schiacciato. È cresciuto abbastanza che in Francia c'è un club, il Reims, che addirittura lo vorrebbe come tecnico. O sono diventati tutti pazzi (compreso il popolo blancos che di certe cose se ne intende) oppure sotto il Vesuvio avevano preso fischi per fiaschi. La risposta è dentro Aurelio De Laurentiis, che ogni tanto pure scivola su una buccia di banana distratto dal proprio ego, ma è quella sbagliata.

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Davide Ancelotti e la carriera di allenatore con papà Carlo

A 34 anni Davide Ancelotti vanta una bacheca di trofei che certi allenatori, anche quelli che vanno per la maggiore nell'eterna dicotomia tra giochisti tutto schemi, possesso e furore contro pragmatici che considerano il calcio una cosa semplice, possono solo sognare. La vocina che gli ronza in testa è sempre la stessa: se li ha vinti non è per merito suo. Lui c'è abituato, anche se gli dà fastidio. Ma sa che l'unico modo per zittirla è lavorare e guadagnare la fiducia sul campo, con il contatto umano e la competenza (decisivi i suggerimenti sui rigori contro il Manchester City oppure la strategia usata contro il Chelsea), con la capacità di farsi apprezzare dagli interlocutori. Non gente comune, ma campioni del calibro di Modric e Kroos: un loro cenno d'intesa vale più di mille parole fuori luogo all'insegna del "sì, ma tanto è figlio di".

Le regole di Davide Ancelotti nel Real Madrid

"Non aver fatto il calciatore ed essere il figlio dell'allenatore – ha raccontato Ancelotti jr nell'intervista ad ABC  -, all'inizio può rappresentare un problema. Ma col tempo riuscirai a conquistare la fiducia dello spogliatoio". Intelligenza, diplomazia, rispetto dei ruoli tra le mura di uno spogliatoio sono tutt'altro che dettagli. "Quando siamo in gruppo, davanti a tutti mi rivolgo a mio padre che in quel momento è solo l'allenatore. E quando siamo faccia a faccia nelle riunione tecniche sono anche molto severo con lui. Abbiamo confronti duri, lo rimprovero pure se è il caso".

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Chi ha vissuto e vive la quotidianità di un gruppo-squadra sa bene che valore abbiano queste cose. "Cerco sempre di relazionarmi prima con le persone ed entro pochissimo nello spogliatoio. Parlo molto con i giocatori fuori, in palestra, in campo, ma passo pochissimo nello spogliatoio perché so che può essere una figura invasiva. Un vice allenatore, figlio del tecnico, che sta tanto in giro… potete immaginare cosa vuol dire. E io a queste cose sto molto attento".

Cosa fa la differenza e quando la qualità del rapporto migliora? "Cerco sempre di dare le informazioni giuste a un calciatore. E quando il calciatore verifica in campo che quanto gli hai detto è vero allora guadagni la sua fiducia. Altrimenti è più difficile".

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