L’altro Escobar, il difensore perfetto morto per un autogol
Uno dei più bei film della collana “ESPN Films: 30 for 30” è di sicuro “The Two Escobars”, la storia intrecciata dei due Escobar, Pablo e Andrés, due uomini che hanno influito sulla storia della Colombia attraverso le loro vite e le loro morti.
Pablo è il re del narcotraffico, l’uomo che insieme ai sodali del cartello di Medellín e gli altri del cartello di Cali, ha fatto planare negli USA una quantità spropositata di droga negli anni ’80 cambiando le traiettorie dell’Occidente e facendolo definitivamente uscire dall’era hippie degli anni ’60 e ’70. Come contropartita i narcotrafficanti colombiani sono diventati clamorosamente ricchi tanto da influire in maniera decisa in tutti i settori della vita pubblica colombiana.
L’altro Escobar è stato calciatore, ha vinto e perso ed è stato ucciso per colpa di un autogol e di una situazione sociale che Pablo aveva innescato con la sua carriera criminale e poi la sua morte. Andrés oggi avrebbe compiuto 54 anni e avrebbe potuto raccontare la storia della sua carriera da calciatore come una grande epopea che da Medellín era arrivata chissà dove. Nel film è dichiarato da tante persone che gli erano vicine poco prima del suo assassinio, che lo voleva il Milan, la squadra più importante e più forte di quel decennio e sarebbe servito ai rossoneri per rilanciarsi e continuare nel suo ciclo di vittorie. Il Milan voleva Andrés Escobar perché era un difensore davvero eccezionale, uno dei migliori difensori capaci di gestire il gioco a zona, grazie agli insegnamenti del suo allenatore all’Atlético Nacional de Medellín e in Nazionale, Francisco Maturana.
Come Arrigo Sacchi, che aveva dato il via alla rivoluzione calcistica con il suo Milan, così Maturana in Colombia aveva seguito, riadattato e ripensato i concetti sacchiani e olandesi, adattandoli alla realtà sudamericana.
E c’è stato un giorno in cui i due maestri si sono scontrati. Era il 17 dicembre 1989, sul campo dello Stadio Nazionale di Tokyo per la Coppa Intercontinentale. Fu una partita di strategie finissime e geniali, il momento in cui Sacchi comprese di essere stato raggiunto da un altro allenatore, con la paura ma in un certo senso anche il piacere di aver fatto la storia. Andrés Escobar con la sua maglia numero 2 c’era quel giorno in Giappone e aveva giocato la sua solita partita piena di ordine tattico, tempismo negli interventi e leadership davvero unica.
L’epopea dei Los Verdolagas di Maturana ed Escobar inizia proprio verso la fine degli anni ’80, quando il regno incontrastato dell’altro Escobar, Pablo, era all’apice. I contatti tra narcotrafficante e società calcistica e calciatori sono ormai storia, così come sono molto probabili i finanziamenti cospicui che Pablo ha devoluto alla sua squadra (anche per vedere perdere l’América degli nemici di Cali). Nel 1989 l’Atlético Nacional partecipa alla Copa Libertadorese passa da seconda in un girone con i Millionarios e due squadre dell’Ecuador, il Deportivo Quito e l’Emelec. Agli ottavi c’è la difficile sfida contro il Racing Club de Avellaneda, vinta grazie a un grande John Jairo Trellez, per poi superare anche i quarti ancora contro i connazionali del Club Deportivo Los Millonarios di Bogotà. La semifinale contro gli uruguaiani del Danubio fu un vero trionfo. 0-0 in Uruguay e 6-0 in casa, con quaterna di Albeiro Usuriaga. La finale è contro l’Olimpia Asunción che aveva fatto fuori il Boca Juniors, l’Internacional di Porto Alegre e l’anno successivo vincerà la Copa. Le due partite sono un romanzo incredibile.
Sconfitta per 2-0 ad Asunción con gol di Rafael Bobadilla e Vidal Sanabria, nel ritorno in Colombia tutto si ribalta con un altro 2-0 casalingo con autorete di Fider Miño e un gol di Albeiro Usuriaga. Si va ai rigori e diventa protagonista un altro uomo copertina di quegli anni colombiani: René Higuita. Per la prima volta nella storia della competizione una squadra colombiana vince la Copa Libertadores. Andrés Escobar ha giocato una finale favolosa, segnato il primo rigore per la sua squadra e quando alza la Copa è l’uomo che ha compiuto un mezzo miracolo.
L’orologio va avanti di cinque anni, siamo nel luglio del 1994. In mezzo era successo di tutto. Da un punto di vista sociale, la morte di Pablo Escobar del dicembre 1993 aveva creato una situazione di totale anarchia in tutto il Paese, ma soprattutto a Medellín, diventata la città più violenta del mondo con decine e decine di omicidi ogni giorno. Tutti volevano prendersi il trono di Pablo. Da un punto di vista calcistico l’esperienza dell’Atlético Nacional e tanti suo uomini in campo, insieme allo stesso allenatore Maturana, avevano fatto diventare grande la Nazionale, capace di vincere 0-5 al Monumental di Buenos Aires ed essere indicata come una delle favorite per USA 94. Nella prima partita del girone ai Mondiali però Hagi immaginò una partita tutta sua, portando la Romania a vincere 3-1 e così la seconda partita del gruppo A contro gli USA padroni di casa divenne decisiva. Al 35’ su un cross al centro, Andrés Escobar andò per intercettare il passaggio e indirizzò il pallone nella sua porta. La partita finisce 2-1 e la Colombia è già fuori dal Mondiale.
Passano 14 giorni e quando Humberto Muñoz Castro, guardaspalle dei fratelli Castaño, capi dei Los Pepes, gruppo che voleva prendere il potere in città, gli puntò la mitragliatrice al corpo, gli chiese conto proprio di quell’autogol segnato a Pasadena. Così termina la vita di Andrés, la Colombia di Pablo e il film che li unisce in un intreccio che ha fatto la storia del loro Paese e in qualche modo dell’intero Sud America. Ma se Pablo è oggi ricordato con quel misto di mitografia e ribrezzo che dedichiamo ai criminali, Andrés è ancora oggi per tutti un grande calciatore, capace di vincere trofei che nessuno aveva mai vinto con un posto privilegiato nella storia del calcio.