L’altra sfida dell’Iran ai Mondiali: portare le proteste sotto gli occhi del mondo
La morte di Mahsa Amini ha scosso l’Iran, la sua gente e ha aperto qualche spiraglio di luce su una situazione che troppi guardano come lontana e per questo poco interessante soprattutto in Europa. Il regime schiaccia ogni dissenso, blocca ogni voce contraria e tanti stanno in qualche modo cercando di far uscire dallo Stato informazioni e far sentire anche la propria voce di protesta. In questa situazione si trovano molto calciatori, del passato e alcuni anche della Nazionale attuale, che stanno cercando di smuovere le acque e far parlare d’Iran, prima che tutto venga mostruosamente zittito come spesso è accaduto anche in passato.
Lo ha fatto Ali Karimi, quello che era denominato il Maradona d’Asia, che ha attaccato il regime ricevendo un mandato di cattura internazionale, lo ha fatto Ali Daei, mito dei miti per quel che riguarda il calcio iraniano, autore di 109 gol in Nazionale, arrestato a fine ottobre per essersi schierato a favore delle proteste, lo hanno fatto, con un coraggio davvero leonino, i calciatori della Nazionale di Beach Soccer dell’Iran prima, durante e dopo la finale dell’International Cup, competizione internazionale seconda solo al Mondiale.
I calciatori iraniani prima di tutto non hanno cantato l’inno (la tv di stato ha subito oscurato la partita proprio per il timore di ulteriori forme di proteste), poi non hanno festeggiato una vittoria prestigiosa contro il Brasile, grande potenza del Beach Soccer mondiale e uno di loro, il fuoriclasse Saeed Piramoon, dopo aver segnato il secondo gol, ha messo in scena l’atto-copertina dell’intera iniziativa: si è fermato al centro del campo e ha mimato il taglio dei capelli, atto che le ragazze e le donne iraniane stanno realizzando in patria proprio per sfidare e protestare contro la violenza e le limitazioni imposte dal regime. Dopo aver vinto ed essere tornati in Iran, i calciatori sono stati prelevati contro la loro volontà da 15 agenti e portati non si sa dove.
Insieme a questi poi, tanti altri atti di protesta e sdegno: la campionessa di arrampicata Elnaz Rekabi ha gareggiato durante i Giochi Asiatici di Seoul senza il velo, la squadra di pallanuoto maschile ha rifiutato di cantare l’inno, i giocatori dell’Esteghlal non hanno festeggiato la vittoria della Supercoppa. E prima degli altri proprio la Nazionale di calcio dell’Iran, la quale durante l’inno nazionale prima della partita contro il Senegal del 27 settembre, ha indossato dei giubbotti neri per coprire la propria maglietta e quindi il simbolo del Paese e i calciatori non hanno praticamente esultato al gol del pareggio di Sardar Azmoun.
Proprio Azmoun poi ha una vicenda piena di coraggio e mistero che lo riguarda. Dopo la morte di Mahsa Amini e l’inizio delle proteste è stato il primo a schierarsi con un post Instagram molto duro. “Se vogliono tagliarmi dalla squadra è il sacrificio per una sola ciocca di capelli di una donna iraniana. Non è possibile che questo post venga cancellato. Vergognatevi per la facilità con cui uccidete le persone. Lunga vita alle donne iraniane”. Parole nette e dure, inequivocabili.
Il post dopo un po’ di tempo però è stato rimosso e i contenuti di Azmoun sono diventati non rintracciabili. Oggi però Sardar Azmoun continua a pubblicare, con una foto profilo completamente nera e immagini che parlano del dolore che sta provando la sua gente.
Ma siamo arrivati al momento della verità e Azmoun è il miglior giocatore della squadra, per cui Carlos Queiroz è riuscito a superare ogni blocco e convocare Sardar per Qatar 2022. La convocazione servirà ad acquietare la sua voce di protesta oppure il Mondiale sarà una piattaforma planetaria sconfinata grazie alla quale amplificare la protesta stessa? L’Iran giocherà contro tre squadre “avversarie” anche del regime, Galles e soprattutto Inghilterra e USA. Forse per Azmoun e gli altri calciatori e non solo, Qatar 2022 è il momento perfetto per mettere sul piatto globale il caso Iran.