La Superlega avrà un salary cap in stile NBA: come funziona
Che la Superlega non sia l'NBA e non possa mai diventarlo per differenze prima di tutto culturali e storiche, oltre che economiche, è stato già detto. Idem che, al più, la nuova competizione paventata dalle 12 potenze del calcio europeo potrà assomigliare, nella migliore delle ipotesi e con proporzioni naturalmente diverse in quanto a introiti, all'attuale Eurolega, il trofeo di basket per club più prestigioso del vecchio continente. Eppure, tra mille forzature e parallelismi che non hanno ragione di esistere, quanto detto ieri in serata nel corso di un'intervista rilasciata al programma "El Chiringuito" da Florentino Perez, presidente del Real Madrid, sembra l'unico potenziale punto in comune con la massima lega americana, ovvero la previsione di un salary cap per ogni squadra, che assieme al fair-play finanziario (anche questo confermato da Perez ma tutto da migliore e implementare viste le manovre poco trasparenti messe in atto da diversi club negli ultimi anni per non incorrere in penalità) servirà a imporre una più oculata gestione dei conti ai club evitando spese superiori alle entrate e ambendo, esattamente come l'NBA, all'incremento del valore complessivo del prodotto per poi ridistribuire proventi tra le partecipanti. Le parole di Perez sembrano andare in questa direzione.
Il salary cap in Superlega: le parole di Florentino Perez
"Nel nuovo progetto il tetto massimo per gli stipendi corrisponderà al 55% del fatturato. Gli stipendi aumentano sempre, mentre le entrate diminuiscono. In questa fase ci sono problemi anche con le sponsorizzazioni, ottimi partners come Adidas e Emirates hanno incontrato diverse difficoltà e faticano a raggiungere i livelli pre-pandemia. Alcuni pensano che non sia successo niente, ma in realtà sono cambiate tante cose. Servirà maggiore trasparenza, in NBA tutti sanno quanto guadagnano, è pubblico. Perché non è lo stesso qui!?"
In effetti, con uno sport più volte annunciato sull'orlo di una crisi che la recente pandemia ha accelerato in modo evidente, in più occasioni negli ultimi anni è stato prospettato l'inserimento del salary cap come strumento per evitare ulteriori indebitamenti e condurre lentamente le società verso la virtuosa via dell'autosufficienza economica.
Come funziona il salary cap?
Per evitare che nel corso degli anni si creasse un gap tra squadre più ricche e squadre meno ricche, nella stagione 1984/85 l’NBA ha introdotto il sistema del salary cap, strumento essenziale per garantire equilibrio e competitività orizzontale tra tutte le franchigie della lega. Molto semplicemente: il salary cap è la somma complessiva che ogni squadra può spendere per gli ingaggi dei giocatori a roster (solo giocatori, per i coach esiste un altro monte ingaggi che copre tutto lo staff tecnico, stesso dicasi per la dirigenza/front office). La logica è esattamente quella di prevedere pari opportunità per ogni team, senza penalizzazioni per quelli con meno blasone che, sulla carta, devono avere il medesimo potenziale economico delle franchigie più vincenti. Esistono, ovviamente, grandi e piccoli mercati che i giocatori valutano poi con mille altri criteri: la città, il bacino di tifosi, il clima. In questo, la scelta del singolo resta ma non esistono strade precluse in partenza alle 30 squadre.
Come viene determinato? L'NBA e l'NBPA (Associazione dei giocatori) negoziano a cadenza periodica la somma, frutto degli introiti della stagione precedente e di una previsione dei futuri incassi di quella che verrà. In diverse occasioni la contrattazione tra le parti ha anche portato a fratture sfociate in scioperi dei giocatori con conseguente partenza della stagione differita nei mesi, fino al raggiungimento di un accordo.
Si può andare oltre questo tetto? Si, perché ogni anno viene fissato, assieme al salary cap, la soglia della Luxury Tax Line, quella oltre la quale scatta la sanzione (cd. "tassa di lusso") per ogni squadra che sfori la somma indicata. Per la stagione 2020/21 il salary cap è stata fissato a 109 milioni di dollari, la soglia da non superare a 132 milioni. Numeri astronomici se pensiamo che nella stagione 1999/2000 il salary cap era di 34 milioni di dollari, nel 2009/10 di 57.7 e appena cinque anni fa di 70 milioni. Un incremento che più di ogni altro numero mostra la continua crescita del prodotto NBA ma che non va mai oltre la reale capacità del sistema, perchè la ratio di fondo è esattamente quella di non fare mai un passo più lungo della gamba e di condividere con le 30 franchigie i guadagni man mano accumulati.
Si può spendere meno? Si, ma senza scendere oltre il cd. salary floor (pari al 90% del salary cap, quest’annno quindi 98 milioni di dollari circa). Se si va ulteriormente al di sotto, la differenza rispetto al floor viene distribuita tra i giocatori al roster.
Un tetto massimo e una soglia minima: in pratica in NBA non esistono stagioni “al risparmio”, come non vengono lasciate impunite annate all’ingrasso, sanzionate con multe salatissime. Al di sopra della Luxury Tax l’eccesso viene pagato due volte, una per gli ingaggi effettivi e l’altra come somma, di pari livello, che rappresenta la multa e viene poi divisa tra le franchigie "virtuose". Se si supera di oltre 4 milioni anche la soglia della Luxury Tax si entra nel cd. "Apron", oltre il quale vengono poi fissati del limiti alle operazioni di mercato che una squadra può fare. La zona cuscinetto tra Salary Cap e Luxury viene definita Soft Cap (che differenzia l'NBA dalle altre leghe professionistiche americane, dove non è concesso sforare).
Concetti ormai familiari a chi segue la pallacanestro, ma di non facilissima comprensione soprattutto in termini culturali in chi, per decenni, è sempre stato abituato ad assistere all'acuirsi del gap tra le big e le squadre piccole. In una lega dove però di fatto sembrano esserci solo corazzate, imporsi delle regole è l'unica via per non implodere nuovamente.