Non c'era bisogno della chiromante per capire che il castello accusatorio nei confronti del Napoli sarebbe crollato dinanzi al Collegio di Garanzia del Coni. Chi ha anche solo un'infarinatura di diritto sa bene che nella gerarchia delle fonti anche un protocollo – come quello sancito da Figc, Governo e Comitato Tecnico scientifico – non ha alcuna valenza al cospetto delle leggi e dell'ordinamento dello Stato. Soprattutto se all'interno di quel pacchetto normativo è specificato a chiare lettere che a determinate condizioni, nel rispetto delle regole, si può giocare "fatti salvi eventuali provvedimenti delle autorità statali o locali". Era tutto già scritto nella circolare recepita dalla Lega di Serie A, a integrazione della direttiva Uefa secondo cui per lo svolgimento di una partita ai tempi del Covid potevano bastare 13 giocatori (portiere compreso).
Cosa vuol dire? In buona sostanza il calcio italiano non può ritenersi al di sopra di tutto, perfino della Costituzione, pur di tirare dritto per la sua strada. E quel "la Corte sportiva d'Appello ha fatto il passo più lungo della gamba", in riferimento al verdetto nel quale al club era stato imputato di aver imbrogliato per non giocare contro la Juventus, è molto più di una bacchettata sulle mani. È mettere le cose a posto, ricondurre nell'alveo della legge chi i principi di legge li aveva confusi con una logica manichea, nemmeno fosse la Santa Inquisizione a caccia di eretici, restando trincerati in una torre d'avorio mentre il mondo intorno brucia. È riportare alla realtà chi ha sempre creduto di vivere in una dimensione parallela, autoreferenziale, intoccabile.
È un richiamo severo e un monito per il futuro perché, in piena pandemia, con 700/800 morti al giorno, non si può sacrificare la salute pubblica e degli atleti sull'altare di una serie di prescrizioni pensate per un periodo differente da quello attuale, per uno spettacolo che non può continuare a tutti i costi. A giugno, dopo il lungo periodo di lockdown, la curva dei contagi e dei decessi era calata fino a sparire. Ignorare la situazione contingente era (ed è) da folli irresponsabili. Ecco perché "non era una scelta, ma un obbligo, il Napoli non aveva neanche una ragione su un milione per sottrarsi alla sfida". Finisce così la sentenza del Collegio, che ribalta la narrazione fatta dal Giudice Sportivo e poi ribadita in Appello. Una tirata d'orecchie nei confronti di quella fetta di apparato federale che s'era spinto oltre, riducendo l'intera vicenda a una pantomima, rifiutandosi di ascoltare le istanze legittime di una società preoccupata per i propri tesserati e di un ente pubblico che, null'altro ha fatto, se non applicare la legge.
Non si può spiegare cosa è accaduto senza aggiungere un altro tassello importante: è vero che il Genoa s'era recato al San Paolo nonostante i casi di positività di Perin e Schöne (come da regolamento) ma è altrettanto vero che, all'indomani della gara con i partenopei, quel focolaio era esploso in un incendio virale con 22 contagiati, di cui 17 tra i giocatori. La bolla s'era rotta. Il virus aveva fatto breccia tra le maglie della profilassi e dei controlli serrati. E in Italia non c'è categoria più controllata degli atleti delle squadre di calcio, nemmeno medici e infermieri sono sottoposti a screening con la stessa frequenza. È successo qualcosa di molto simile a quanto verificatosi nelle Rsa durante la fase più drammatica della pandemia da coronavirus. Si chiama esposizione puntuale: nei primi tre giorni dopo il contatto un giocatore non sa di essere contagiato, non avverte sintomi e crede di essere immune, risultando addirittura negativo al tampone. E quando nel Genoa se ne sono accorti era troppo tardi. Avevano già giocato.
Ecco perché, dinanzi ai casi di Zielinski, Elmas e di un dirigente immediatamente successivi a quel match i timori espressi dal Napoli avrebbero dovuto trovare ascolto. Invece, sono stati ignorati riducendo tutto allo sterile ‘rispetto del protocollo'. Quello stesso protocollo che era praticamente saltato proprio in virtù del caso Genoa. Ecco perché era diritto e dovere della Federazione e della Lega di Serie A gestire la questione non privilegiando una squadra (il Napoli) rispetto ad altre ma mettendo in atto tutte le azioni opportune, legittime, necessarie anzitutto per capire cosa era successo e poi trovare una soluzione equa. Tutto tranne avere l'atteggiamento infastidito di chi dice: sta zitto e gioca. Avrebbero dovuto tenere le redini della situazione, invece pensavano bastasse gonfiare il petto e mostrare i muscoli per addomesticare il club ritenuto ribelle. E quella situazione è sfuggita di mano.
"Fatti salvi eventuali provvedimenti delle autorità statali o locali". Torniamo su questo inciso perché è fondamentale a spiegare come, da parte delle istituzioni sportive, c'è sempre stata piena consapevolezza (o, forse, lo avevano dimenticato?) che anche un solo atto di un'autorità pubblica come una Asl avrebbe inficiato l'intero sistema. Sono state interpretate le leggi dello Stato perché Juve-Napoli (e Napoli-Genoa) non costituissero un precedente pericoloso, pur di non inceppare il meccanismo dei campionati e dei calendari (dalla Serie A alla C) che i vertici del calcio non hanno modificato, senza pensare a soluzioni alternative, convinti che quella fosse l'unica strada da seguire per non scalfire interessi di bottega.
Juventus-Napoli verrà giocata e ai partenopei è stato tolto quel punto di penalizzazione che aveva reso più dura la sanzione afflittiva. Non si doveva arrivare a questo. Bisognava mediare e trovare una soluzione condivisa nel solco del regolamento, rispettando le istanze di un club che era finito in un cluster correndo rischi per la salute. Occorreva buonsenso, hanno prevalso sicumera del potere e ottusità di un protocollo che l'evoluzione del Covid e il caso Genoa avevano ridotto a carta straccia. Figc e Lega di A ne escono malissimo. Avrebbero voluto seppellire questo precedente, mettere a tacere tutto e tutti. Ne sono stati travolti.