La rivincita dell’Atalanta su Andrea Agnelli che la bistrattava perché “senza storia internazionale”
Quattro anni fa, prima che il ciclone del Covid s'abbattesse sui bilanci e quello delle inchieste sulle plusvalenze spazzasse via il board della Juventus, l'ex presidente Andrea Agnelli si abbandonò a una riflessione che fece discutere e provocò sdegno. Fece l'esempio dell'Atalanta, "una società senza storia internazionale", che s'era fatta larga in Champions League e si chiedeva se fosse "giusto o meno" avere la Dea nella massima competizione continentale. In sintesi: voleva cambiare le regole del calcio.
La vittoria dell'Europa League degli orobici è la migliore risposta (sul campo) che potesse arrivare a distanza di anni, a suggello di un lungo percorso di programmazione e scelte gestionali curate "senza fare debiti e con le nostre forze" (come sottolineato dallo stesso Gasperini con orgoglio nel corso delle interviste in Rai).
L'ex massimo dirigente partiva da un assunto elitario, quello che sarebbe stato il substrato della Superlega e il filo conduttore del blitz messo in atto (e subito fallito) nell'aprile del 2021: il tentativo da parte delle grandi società europee (quelle che per tradizione, bacino d'utenza, capacità finanziaria e d'attrarre campioni) di staccarsi dalla Uefa per farsi un torneo proprio, ricco, aperto a pochi eletti. Il motivo? "Proteggere gli investimenti e i costi", disse al al forum del Financial Times Business of Football Summit. Così da restare al riparo da brutte sorprese anche nelle più classiche annate negative, al sicuro pure dagli exploit di quelle formazioni che grazie a una "grande prestazione sportiva" succhiavano risorse vitali, occupavano spazi preziosi.
"Ho grande rispetto per quello che sta facendo l’Atalanta, ma senza storia internazionale e con una grande prestazione sportiva ha avuto accesso diretto alla massima competizione europea per club. È giusto o no?". Furono le parole di Agnelli che, a corredo di questa riflessione conclusa con una domanda senza risposta, citò l'esempio della Roma a fondamento e spiegazione dei dubbi espressi. "Ha contribuito negli ultimi anni a mantenere il Ranking dell’Italia però ha avuto una brutta stagione ed è fuori, con quello che ne consegue a livello economico".
Agnelli ragionava di riforma della Champions League e sul futuro a lungo termine del calcio. "Quello che stiamo facendo è analizzare le dinamiche e capire cosa vorranno i consumatori nei prossimi 10, 15 anni". E ipotizzò perfino la concessione di una sorta di licenza speciale, a lungo termine, per evitare che si verificassero situazioni tremende (secondo la sua visione) per i riflessi sportivi e le ricadute economiche: ovvero ritrovarsi con una squadra come l'Atalanta che va in Champions con una sola stagione positiva e i giallorossi fuori nonostante la loro storia.
In buona sostanza, immaginava una specie di diritto pluriennale da utilizzare raggiungendo un risultato minimo. Un bonus per pochi, non per tutti. Un salvagente che avrebbe falsato il senso stesso della competizione agonistica fondata sul merito. L'idea di Agnelli era differente: "Mantenere il proprio livello internazionale con una determinata posizione minima in classifica".
E fa nulla che a Bergamo abbiano iniziato da anni un cammino di crescita progressivo, costante (dallo stadio al settore giovanile oltre al centro sportivo), che non è solo quel che si vede sul terreno di gioco ed è fatto di piazzamenti in campionato. Secondo l'ex presidente della Juventus la discriminante era la "storia internazionale" pregressa: così fosse stato, avrebbe impedito a piazze/società virtuose di affacciarsi sul grande calcio.
La vittoria netta, perfetta, meritata, giusta dell'Atalanta a Dublino contro il non più imbattibile Bayer Leverkusen è la chiosa perfetta di quelle argomentazioni. La Dea c'è ancora. Agnelli la ‘sua' Juve e quel calcio che aveva in mente non ci sono più.