La lezione di Luis Enrique, un gigante nella sconfitta: “Insegniamo ai bambini come saper perdere”
Come fa essere così? Guardi la serenità che ha negli occhi Luis Enrique, la semplicità con la quale si accorge che Mancini è lì davanti a lui per salutarlo prima del fischio d'inizio: si alza di scatto (quasi a scusarsi per quella imperdonabile distrazione) e gli dice "hola, Roberto" stringendogli la mano. E pensi non sia spontaneo. Guardi l'abbraccio con Daniele De Rossi e immagini si siano detti addio solo ieri, tale è la familiarità. Guardi come affronta la sconfitta maturata ai rigori dopo una partita giocata bene, per larghi tratti dominata, persa e ripresa, poi finita in frantumi dal dischetto, stritolata dalle mani grandi che ha Donnarumma. E provi stupore. Quasi non sembra vero. Invece lo è. Ed è tutto quel che dovrebbe essere un uomo che può essere un gigante anche nella sconfitta. Vince anche quando perde.
Siamo stati una squadra dall'inizio alla fine – ha spiegato Luis Enrique ai media spagnoli -. Una squadra composta da giocatori molto giovani che ci hanno fatto capire cose molto importanti nonostante la loro età. Torniamo a casa con la tranquillità e la consapevolezza di aver dato tutto in partita ed essere stati i migliori.
Chi conosce la vita di "Lucho", chi è stato ferito a morte per un grave lutto, chi sa cosa significa il dolore di un padre che vede la figlia (Xana) morire a 9 anni per un tumore alle ossa, che si sente impotente, non può salvarla e chiede a Dio "perché, cosa ha fatto la mia creatura per meritare tutto questo?", ha la risposta a quella domanda che ronza in testa. Come fa a essere così? Siamo abituati a utilizzare paroloni come spirito guerriero, eroe, dare a forza e coraggio un'accezione al limite del misticismo. Ma la realtà è che si può essere una persona magnifica, vivere con compostezza le proprie sofferenze, anche senza tutti questi orpelli che abbelliscono le corazze più scintillanti.
Non c'è da stupirsi per il fairplay dimostrato riconoscendo i meriti dell'Italia, augurandole di disputare una bella finale e, magari, anche di vincerla. Ha perfino annunciato di fare il tifo per gli Azzurri. "Non me ne vogliano gli inglesi o la Danimarca, ma spero siano loro a vincere gli Europei", e ti lascia ancora una volta a bocca aperta mentre esprime quei concetti con assoluta trasparenza d'animo. Glielo leggi negli occhi. E gli occhi, soprattutto quelli di un uomo che la vita ha messo a dura prova e potrebbe essere arrabbiato con il mondo intero, non mentono mai.
Per me non è una notte triste – ha aggiunto spiegando le proprie sensazioni dopo l'eliminazione contro l'Italia -. Bisogna sapere come vincere e come perdere. Nei quarti di finale siamo stati molto contenti per i rigori, questa volta ci è andata male. La sconfitta fa parte dello sport, del calcio, della vita. Bisogna imparare a gestirla. E devi essere di esempio per i bambini piccoli: quando perdi non devi piangere ma rialzarti.
Il tecnico asturiano ha imparato la lezione nel corso degli anni, attraverso un percorso che sembra una sorta di cammino di Santiago. Da calciatore le ha date e le ha prese, è uscito dal campo a braccia alzate o a capo chino ma sempre con fierezza. Da allenatore ha vissuto i momenti più esaltanti a Barcellona. A Roma, durante la sua esperienza poco brillante sulla panchina dei giallorossi, gli piaceva recarsi in bicicletta al centro sportivo distante quasi 60 chilometri dalla sua abitazione. "Lo sport per me è vita", ha sempre ripetuto anche quando ha appeso le scarpette al chiodo ed è stato un anno in Australia per praticare surf: cadeva e tornava in piedi sulla tavola, l'onda lo sbatteva giù e lui risaliva a galla.
Luis Enrique ha corso nel deserto del Sahara la Marathon de Sables: in spalla aveva solo uno zaino con le poche cose che servono per sopravvivere e non s'è mai fermato. Rialzarsi e ricominciare daccapo è stata una costante nella sua carriera a metà tra il palcoscenico dei campi di gioco e tutto il resto che si chiama vita. E la vita è (anche) arrivare al traguardo dopo aver affrontato la ‘spezzaossa', così si chiama in Spagna una delle gare più dure di gran fondo di ciclismo. Lì capisci che puoi ogni cosa perché la vita stessa è come andare in bicicletta: per restare in equilibrio sopra la follia bisogna continuare a pedalare. Nonostante tutto.