Juary racconta il suo approdo con l’inganno in Italia, era sull’aereo: “Dove ca**o sta Avellino?”
I meno giovani ricordano sicuramente una delle esultanze più iconiche della storia del calcio, quando ancora non esistevano i social e tutto quello che si aveva a disposizione erano le immagini televisive che pochi pionieri della tecnologia potevano conservare in cassette videoregistrate: il balletto di Juary intorno alla bandierina del calcio d'angolo è impresso a fuoco nella memoria di chi c'era. Era l'inizio degli anni '80, le frontiere del calcio italiano erano state riaperte da poco agli stranieri: nel 1980 l'Avellino fu uno dei club a tesserare l'unico giocatore consentito dall'estero per ogni squadra, facendo arrivare dal Messico – dove allora giocava – quel brevilineo attaccante brasiliano.
L'accoglienza dell'allora presidentissimo del club irpino, il commendatore Antonio Sibilia, non fu tuttavia quella che sognava il 21enne: "E questo sarebbe un attaccante? Ti do tre mesi, se non va caccio te e lui", disse Sibilia all'allenatore Luis Vinicio, dopo aver osservato dalla testa ai piedi il minuto Juary, che era alto un metro e 68 e pesava come uno scricciolo.
Poi però le cose andarono diversamente e il brasiliano diventò un protetto del presidente, oltre che un idolo dei tifosi biancoverdi. Intervistato da ‘La Stampa', il 64enne Juary racconta peraltro che lui non aveva la minima idea che era stato trasferito alla squadra irpina: "L'ho saputo su un aereo per Roma, dove mi avevano convinto a salire con l’inganno: dopo qualche bicchiere di vino, Nicola Gravina, manager che mi seguiva fin da ragazzino, confessò. ‘Dove cazzo è Avellino? Non ci vado' protestai, ma lui sorrise: ‘Sai volare? Perché paracadute non ce n'è…. Ero incuriosito, inquieto, dubbioso. Invece fu la svolta della mia vita, Avellino diventò casa e il presidente un secondo papà: nei momenti bui c'era sempre, negli affari bastava una stretta di mano".
"I tifosi, la città mi adottarono – continua Juary – E la tragedia del terremoto ci unì ancora di più alla nostra gente. Volevamo portare un sorriso a chi aveva perso persone care o era rimasto senza un tetto. A volte, negli stadi ci urlavano terremotati: pensavano di offenderci, ci caricavano. Incisi anche un disco per beneficenza. Tutti i ricavi destinati alla ricostruzione e all'aiuto di chi non aveva più nulla. Il minimo".
Dopo due anni all'Avellino, Juary nel 1982 passò all'Inter, dove rimase una sola stagione: "Mi presero, in realtà, per girarmi al Cesena e avere Schachner, ma l’operazione si arenò e mi ritrovai a Milano. Faticai ad ambientarmi e non solo per il clima. Ricordo un gol al Catanzaro di cui, per la nebbia, ci accorgemmo solo io e l’arbitro. Il fatto è che ad Avellino ero un re, la squadra mi ruotava attorno e la gente mi coccolava: all'Inter, circondato da campioni, uno dei tanti. Ripartii dalla provincia: Ascoli e Cremonese, pochi gol e tanti incontri preziosi. Non dimentico la professionalità e l'umanità di Mondonico".
Nel 1985 Juary aveva 26 anni e il meglio sembrava ormai alle spalle, invece il destino aveva in serbo per lui un clamoroso e bellissimo colpo di scena, la vittoria addirittura della Coppa dei Campioni: "Infatti volevo tornare in Brasile. Invece accettai un'offerta del Porto e fui ripagato da un'emozione unica: il Bayern di Rummenigge e Matthaus battuto in finale con un mio gol e la Coppa dei Campioni alzata nel cielo di Vienna".