Italia-Svezia e i retroscena del fallimento più clamoroso nella storia del calcio italiano
Tredici novembre 2017. Il silenzio surreale dello stadio Meazza scandì la disfatta dell'Italia, fuori dal Mondiale di Russia 2018. Ansia e paura di farcela spinsero la Nazionale giù, nel baratro. La qualificazione fallì in casa, ai playoff contro la Svezia. A pensarci oggi vengono ancora i brividi. È come passare la mano su una vecchia cicatrice e tornare indietro nel tempo, fino a quelle emozioni spacca cuore. Finì malissimo, fu come l'ennesima Corea della storia Azzurra.
Rewind, la disfatta di San Siro
Di quella sera restano fotogrammi emblematici: l'espressione furente di De Rossi, che contesta platealmente i cambi del ct; la faccia sconsolata di Insigne, lasciato in panchina proprio quando in attacco il suo ‘piede caldo' avrebbe fatto comodo per il forcing finale; l'espressione di Buffon e le lacrime di Bonucci; il volto tirato, stralunato, arrabbiato, deluso del ct che a quel match arrivò logorato dal sospetto, dal nervosismo e dopo il tracollo si ritrovò da solo, tra le macerie. Non rassegnò le dimissioni, aspettò che lo sollevassero dall'incarico.
Le tappe del fallimento, dalla Spagna alla Svezia
A quella (maledetta) sera che rappresentò il punto di non ritorno per il calcio italiano, Ventura e l'Italia arrivarono divisi, in dissenso, malfidati, tormentati. Il risultato del campo (0-0) fu solo l'epilogo più duro di un percorso accidentato che iniziò con la sconfitta – anzitutto sul piano del gioco – in Spagna. La Nazionale che si presentò a viso aperto al Bernabeu, convinta di poter giocare alla pari con le Furie Rosse, tornò da Madrid con 3 sberle sul muso e il morale a pezzi. La Nazionale che con Conte aveva battuto gli iberici all'Europeo aveva smarrito la sua identità, perso consapevolezza dei suoi messi. Più di tutte, furono le parole di Gigi Buffon a descrivere le sensazioni di allora, le stesse che avrebbero caratterizzato il cammino della squadra fino alla gara spareggio di San Siro.
Pensavamo di essere a un livello superiore – raccontò l'ex numero uno Azzurro, che lasciò la Nazionale dopo quel fallimento – invece quella sconfitta ci ridimensionò di parecchio. Pregiudicò le nostre convinzioni, ci tolse certezze, personalità e soprattutto fu un fardello pesantissimo da portare.
Ventura e il braccio di ferro con i senatori
L'equilibrio s'era rotto. E quando i ‘senatori' del gruppo chiesero al commissario tecnico di rivedere parte delle proprie convinzioni per giocare con un modulo differente per Ventura fu come ricevere un affronto. A Madrid s'era sentito tradito, adesso aveva la riprova che di quel gruppo non aveva la leadership. Che non lo avrebbero più seguito. Aveva intuito che quel "fai come vuoi" mormoratogli faccia a faccia sarebbe stato esiziale. Che l'Italia, la sua Italia, avrebbe portato addosso il marchio del suo fallimento.
La chat WhatsApp, tranello per la ‘talpa'
L'Italia inciampò ancora (pareggio con la Macedonia) e quando i calciatori – capeggiati dai più anziani – fecero quadrato perché in ballo c'erano la qualificazione e l'orgoglio il ct si sentì accerchiato. Chiese a Buffon di spiegare in pubblico che in quella riunione non si era discusso di vicende tecniche. Si sentiva delegittimato e voleva che il capitano ne riabilitasse la figura.
Ossessivo. Così diventò il rapporto con la squadra e quel gruppo che Ventura mise alla prova tendendo un tranello per stanare la ‘talpa'. Lo spione che dallo spogliatoio lasciava filtrare all'esterno ogni cosa, violando la sacralità di uno dei comandamenti del calcio: le cose di campo restano sul campo. Invece, dalla chat WhatsApp di tecnico e calciatori finivano direttamente sui giornali. Chiese la testa della ‘gola profonda', non la ottenne.
La vigilia tormentata, Ventura sparì
Non accadde e fu come scendere un altro gradino verso l'inferno. In Svezia la sconfitta e il palo di Darmian inflissero il colpo di grazia alla Nazionale. Al ritorno, nel ritiro di Appiano Gentile accadde di tutto. Ventura andò via in aperta polemica con i calciatori più rappresentativi del gruppo.
Bravi che avete fatto la riunione a Torino (dopo il pareggio con i macedoni all'Olimpico di Torino, ndr) allenate voi adesso – disse sbattendo la porta.
Il labiale di De Rossi è un atto di ribellione
Sparì per mezza giornata e nessuno aveva la certezza che in panchina a San Siro ci sarebbe stato ancora lui. La squadra gli chiedeva di rivedere alcune convinzioni tattiche e rilanciare Insigne. Il commissario tecnico rivendicò il suo ruolo con determinazione e impose quel diktat dinanzi al quale il labiale di De Rossi sui titoli di coda decretò la fine della sua esperienza. "Che cazzo entro io… dobbiamo vincere", urlò quando gli venne chiesto di scaldarsi per andare in campo. La fine di un'illusione, l'Italia era fuori dal Mondiale.