Il sogno Mundial di Paolo Rossi: “Io, calciatore normale, ho fatto piangere il Brasile”
"Rossi! Rossi! Rossi!". La voce è la stessa, quella di Nando Martellini che poche settimane più tardi avrebbe urlato "campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo" a Madrid a corredo dell'esultanza del Presidente, Sandro Pertini. L'Italia batte il Brasile 3-2 con 3 gol di Paolo Rossi, morto all'età di 64 anni. Una vittoria storica. Pazzesca, nessuno ci avrebbe mai creduto. Pazzesca ma reale. Il centravanti che non ti aspetti manda al tappeto (e in soffitta) il futbol bailado dei sudamericani e trascina verso la finale la tradizione italiana fatta di assalti e trincea, corsa e sacrificio, spunti di classe e quel contropiede micidiale al quale mancava solo l'acuto di una punta. Tre gol, tutti d'un fiato. Tutti in quella partita vietata ai deboli di cuore. Tre gol per spezzare il digiuno (era rimasto a secco nei gironi e nella sfida a eliminazione diretta con l'Argentina di Maradona tartassato da Gentile). Tre gol per sognare a occhi aperti e diventare Pablito.
Ci pensò lui, il 20 che diventò un numero nefasto per i verde-oro, l'attaccante che Boniperti volle alla Juventus a tutti i costi e Bearzot decise che era lui il calciatore da piazzare in cima al reparto offensivo. Perché tanto scetticismo nei confronti di Rossi? Quel pasticciaccio brutto di scommesse che sconvolse il calcio italiano decenni prima di Calciopoli era una macchia sulla carriera dell'uomo, prima ancora del giocatore. "Non ho scheletri nell'armadio – ha più volte raccontato Rossi, ribadendolo anche nella sua autobiografia -. Non avevo alcuna colpa ma restai coinvolto. Fui una vittima e non riuscii a dimostrare la mia estraneità ai fatti".
Sei reti. Tre al Brasile, 2 alla Polonia in semifinale, 1 alla Germania Ovest in finale. E sollevò la Coppa del Mondo. Le prodezze, la vittoria incredibile, la prima dell'era post fascista (gli ultimi trofei risalivano al '34 e al '38, in pieno regime di Benito Mussolini) scandita dal Presidente partigiano cancellarono ogni cosa. "Lasciatemi cantare", era la canzone di Toto Cutugno che avrebbe alimentato l'iconografia intorno a quella squadra, a quella estate italiana nella quale l'urlo di Tardelli, la puntura di Spillo, e poi ancora Zoff, Gentile, Cabrini, il compianto Scirea, Conti e Ciccio Graziani sarebbero rimasti a lungo nella mente dei tifosi.
Paolo Rossi raccolse tutte quelle emozioni in un libro. "Ho fatto piangere il Brasile" (edizioni Limina), scritto con il giornalista Antonio Finco. Parlò di tutto, senza tralasciare nulla. Gli aspetti più belli e più brutti della carriera gli servirono per lasciare quello che definì un messaggio per le nuove generazioni: per trovare il proprio posto nella vita e nella storia non è necessario essere fenomeni. "Io non lo ero. Non ero nemmeno un fuoriclasse – ha spiegato nelle interviste e in quel testo -. Misi le mie qualità al servizio della volontà. Ero un calciatore normale ma sono riuscito a far piangere il Brasile". Un tumore se l'è portato via, ma Pablito vivrà per sempre.