Il Padova sogna la Serie B con le idee di Matteo Andreoletti: “L’allenatore deve creare uno spartito”
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Matteo Andreoletti è il secondo allenatore più giovane d’Italia e con il suo Padova sta facendo una stagione a dir poco esaltante in Serie C: i biancoscudati sono primi a + 6 dal Vicenza secondo e lo scorso weekend sono usciti indenni proprio dallo scontro diretto con un gol allo scadere che ha lasciato inalterate le distanze. A 11 giornate dalla fine la piazza veneta pregusta un ritorno in Serie B dopo sei stagioni, fatte di secondi posti e finali play-off perse (più una Coppa Italia di C vinta, ad onor di cronaca).
Questo ragazzo del 1989 ha preso in mano la squadra la scorsa estate e con grande sapienza non ha stravolto un gruppo che aveva lottato già nel recente passato per la vetta della classifica: oltre a qualche innesto in rosa, il mister nato ad Alzano Lombardo ha inserito le sue idee e con un 3-4-3 fatto di intensità, ottima occupazione degli spazi e grande verticalità sta volando nel girone A. Andreoletti sta dimostrando di avere la stoffa e le qualità per poter puntare in alto a pochi mesi dall’esonero (forse affrettato?) dello scorso anno a Benevento e dopo aver fatto bene con la Pro Sesto.
Nel girone d'andata il Padova ha toccato quota 51 punti con 16 vittorie, tre pareggi e nessuna sconfitta: un percorso ai limiti della perfezione con cui ha eguagliato quello fatto dal Catanzaro nella stagione 2022/2023. La speranza dei biancoscudati è che l'esito finale sia lo stesso, ovvero la promozione in B ma Andreoletti ha bene in mente cosa devono fare i suoi ragazzi nelle prossime settimane: “Non dobbiamo assolutamente metterci a fare tabelle o conti strani perché mancano ancora tantissime partite”.
A Fanpage.it Matteo Andreoletti ha parlato della stagione favolosa al Padova e del suo percorso da allenatore, dagli inizi fino al sogno Serie B.
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Il primo pensiero al gol di Spagnoli: a distanza di quasi una settimana ce lo può dire.
“A caldo non è che pensi molto perché esulti e sei dentro il momento. Siamo passati da un momento di grande tensione ad uno di gioia incredibile. Purtroppo, da allenatore, quel momento di massima euforia svanisce in fretta perché sei già mentalizzato su quello che devi fare la settimana successiva. Ho pensato poco ma mi sono goduto il momento. Era una partita importante, più dal punto di vista morale che della classifica; perché mancano ancora tante gare e ci sono tanti punti in palio”.
Si aspettava di fare questo tipo di stagione: siete sempre stati in testa e 11 partite dalla fine siete a +6 dalla seconda…
“Dal primo colloquio la società ha manifestato la volontà di provare a vincere questo campionato, anche perché comunque l’idea era di ripartire da un gruppo che l’anno precedente era arrivato secondo: quindi per migliorare c’è solo una strada e fai fatica a nasconderti. Io sono venuto qui con la consapevolezza che le stagioni sono tutte diverse ma con l’idea di provarci perché sapevo di avere una società e squadra forti, poi Padova è una piazza importante… c’erano tutti gli ingredienti per fare un campionato di livello. Poi, certo, tra il dire e il fare ci sono in mezzo tanti mesi di lavoro e difficoltà“.
Nella conferenza stampa di presentazione disse che voleva rendere orgogliosi i tifosi e la società: pensa di esserci riuscito, almeno finora?
"Se la mettiamo nei termini di ‘quanto la squadra suda la maglia’ io penso che i tifosi del Padova possano essere orgogliosi, perché questo va al di là del puro risultato. La partita la puoi vincere o la puoi perdere, ma se tu lavori in un certo modo in settimana e di conseguenza la domenica; poi il pubblico te lo riconosce. Io credo che questo ci venga riconosciuto: è chiaro che i risultati valorizzano tutto il lavoro, ma se l’obiettivo era quello di rendere orgogliosa la piazza della sua squadra direi che, fino a questo momento, siamo sulla giusta strada".
In vista del rush finale quali sono gli step che deve fare la sua squadra per migliorare ancora?
"La cosa bella, analizzando le partite con la squadra e nonostante i tanti risultati utili, è che abbiamo margini di miglioramento e non abbiamo ancora raggiunto il massimo del rendimento per quanto riguarda l’aspetto tecnico. Poi, sinceramente, una cosa che non dobbiamo fare sono tabelle o conti strani perché mancano ancora tantissime partite. Dobbiamo portarci a casa una vittoria alla volta sapendo che in questo campionato non c’è mai nulla di scontato".
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“Il calcio è un gioco di squadra, ma ogni singolo giocatore deve sentirsi protagonista”. Questa è una sua frase: in che modo aiuta i suoi calciatori a sentirsi protagonisti?
"Io credo che il compito di un allenatore sia quello di creare un buono spartito al quale tutti debbano attenersi ma all’interno ognuno ha uno strumento diverso e deve essere in grado di suonarlo nelle migliori condizioni. Questo è un po’ l’aspetto generale, ovvero avere un piano al quale tutti possano attaccarsi sapendo che ogni calciatore è diverso dall’altro ed è in quel momento che l’allenatore deve essere in grado di trovare la giusta chiave per ogni singolo, ma soprattuto per ogni singola persona. Perché spesso lo dimentichiamo ma stiamo sempre parlando di persone con cui relazionarsi in maniera diversa per ottenere il massimo".
Ci sono degli allenatori a cui Andreoletti si ispira per idee e metodologie?
"Non sono un’integralista. Mi piace un po’ rubacchiare delle idee qua e là, prendere tanti piccoli particolari: se parlo di gestione, di riuscire ad ottenere in massimo dai calciatori, penso che Antonio Conte sia un punto di riferimento; se parlo di fase offensiva credo che De Zerbi e Gasperini hanno cambiato il calcio recente; e se parlo di fase difensiva Giampaolo mi piace. Vado a prendere dei piccoli particolari che mi piacciono e provo a renderli miei".
Lei è stato portiere prima di diventare allenatore. È un ruolo che è cambiato molto negli ultimi anni e sul quale si discute spesso: quali caratteristiche deve avere il suo numero 1?
"Si usa sempre la classica frase ‘il portiere deve parare’ ma per fortuna non è più così: al portiere vengono fatte tante richieste in più. Io ero un portiere moderno ma allora il calcio non era così evoluto e si pensava che il portiere dovesse solo parare. Oggi il portiere deve conoscere lo spartito del suo allenatore, lavora con la squadra e deve sapere quali sono le richieste dell’allenatore quando si ha la palla e quando ce l’hanno gli altri. Il portiere è un potenziale giocatore di movimento, deve conoscere e relazionarsi con i compagni nel miglior modo possibile. Quindi, secondo me, il portiere deve sapere fare tanto altro e non solo parare e basta".
Cosa vuol dire essersi formati a livello calcistico nell’Atalanta di Mino Favini?
"È un’esperienza che ti segna la vita, io ci sono entrato da bambino di 8 anni e me ne sono andato a 18: ti segna per tutta la vita perché è un’ambiente in cui c’è la ricerca della crescita del calciatore ma, al tempo stesso, contava tanto l’aspetto umano. Rispetto e educazione andavano di pari passo con l’insegnamento di un gesto tecnico e questo, secondo me, ne fa una delle principali prerogative di quell’ambiente che ti segna in positivo per tutta la vita”.
In Italia è molto più difficile, rispetto ad altri paesi europei, diventare allenatore ed è più complicato per i tecnici giovani avere un’opportunità (a parte qualche sporadico caso): perché, secondo lei?
"Il trend sta un po’ cambiando e si percepisce la voglia di inserire allenatori con idee nuove, anche in Serie A la età media si è abbassata. Il limite dl sistema, a partire dalla graduatorie, è che in Italia si privilegia molto la carriera da ex calciatore e se inizi a allenare da giovane vuol dire che non hai giocato ad alti livelli. Da una parte c’è la voglia di inserire persone giovani e dall’altra siamo molto legati ad alcune dinamiche: in realtà è lo stesso tifoso che quando annunciano un ex calciatore come allenatore è più soddisfatto rispetto ad uno sconosciuto. Fa parte del gioco ma in Italia siamo molto legati a questa cosa qua. È chiaro che quelle esperienze che non hai avuto da calciatore le devi andare a recuperare e, quindi, fai la gavetta, altrimenti avrai sempre un gap verso chi ha giocato ad alti livelli".
Lo scorso anno l’avventura a Benevento chiusasi con l'esonero. Questa esperienza mi permette di chiederle questa idea sui tre gironi della C: è davvero così difficile il girone C rispetto agli altri due?
"Sicuramente è diverso. Ogni girone ha delle caratteristiche molto chiare ma non so se più facile o più difficile: se andiamo a vedere quando ai play-off si incontrano le squadre di vertice dei due gironi, il girone C non ha vinto quasi mai. Nel girone C il fattore ambientale sposta tanto perché ogni trasferta è impegnativa e trovi sempre stadi infuocati e un calcio più aggressivo rispetto al girone A, dove non ci sono ambienti così ma trovi sempre campi belli dove ci sono le condizioni per provare a giocare a calcio. Qui ci sono anche squadre piccole che non hanno questa grande pressione, non avendo dietro una tifoseria importante, e provano a giocare alla pari anche con le avversarie più blasonate. Da un punto di vista di ambiente il girone A è molto più vicino alla Serie D mentre quello C per le piazze che ha somiglia molto più alla Serie B. Da quel punto di vista è stimolante sicuramente. Facile e difficile non lo so, ma sono sicuramente diverso".
Nel calcio italiano, soprattutto a livello di media, si utilizza sempre più questa divisione tra giochisti e risultatisti per gli allenatori: cosa pensa di questo dibattito?
“Non è un dibattito superficiale. A me piace una squadra che gioca bene, che regala anche uno spettacolo, fermo restando che l’obiettivo deve restare il risultato. Magari per qualcuno è più importante la forma che la sostanza. Per me la sostanza è il risultato, poi, naturalmente, ognuno sceglie come ottenerlo. Se la strada che ho preso non mi porta al risultato io la cambio, non sono integralista: cerco sempre di adattare i calciatori ad un’idea che possa essere compatibile con le mie idee. Altri allenatori prediligono fare un calcio che sia più riconoscibile comunque vada, talvolta anche per se stessi perché diventa un marchio, ma credo che poi alla società interessa l’obiettivo sportivo. Io credo che noi dobbiamo lavorare per quello, cercando la strada migliore: se possibile è quella più piacevole ma se non lo è, l’obiettivo non è la strada ma l’obiettivo. Io non metto mai la mia idea di calcio sopra tutto perché cerco di capire quale può essere la strada per fare meglio con il materiale che ho a disposizione”.