Il limite di Conte: blocchi lo spartito e va in bambola. Così l’Inter non può vincere
Cambia il dogma, non la fedeltà nel perseguirlo. Antonio Conte, che da allenatore ha vissuto un percorso di evoluzione in almeno tre tempi, fatica a venire a patti con l'idea della flessibilità che pure è una delle chiavi del successo in Europa nel calcio di questi anni. La sconfitta di Coppa Italia contro il Napoli riporta in superficie il difetto di interpretazione che finora ha separato il tecnico salentino dal grande riconoscimento internazionale.
Una carriera con due dogmi, 4-2-4 e 3-5-2
Quando è arrivato alla Juventus, si portava dietro la fama di dogmatico integralista del 4-2-4. Così aveva giocato e vinto ad Arezzo, Bari, Siena. Non era invece riuscito ad imporre il modello, come ricordava Lorenzo Longhi in un articolo del 2013 per Sky Sport, all'Atalanta: ha offerto stagioni memorabili agli esterni Guberti, Sestu, Kamata, ma si è scontrato con Doni, allora un idolo, che da trequartista non apprezzava certo quell'evoluzione.
In bianconero ci mette poco a capire che per far giocare gli uomini migliori nella rosa dovrà cambiare modulo. Inizia una fase di sperimentazioni che lo porta al 4-3-3 e poi al 3-5-2 che accomoda al meglio i tre intoccabili di centrocampo della sua prima Juve (Vidal, Pirlo, Marchisio), e premierà ancor di più le qualità di istrione di Pogba.
Il 3-5-2, che in una delle prime applicazioni gli consente di battere l'Inter di Ranieri, diventa il nuovo dogma, con buona pace di chi, in quegli anni di ridefinizione del modello, aveva provato a ridefinire il Conte-pensiero da integralista a trasformista.
Calcio veloce, strutturato ma un po' troppo rigido
Cambiano i numeri, appunto, ma non la tetragona convinzione della giustezza della via intrapresa. Conte è sempre risultato un po' restio a cambiare lo spartito del suo calcio strutturato e codificato. Per questo le sue squadre, non solo l'Inter di quest'anno, vincono "se corrono tutti a duecento all'ora". Perché la velocità di pensiero e di esecuzione, in stretto rapporto di causa ed effetto, riducono le possibilità che nell'ingranaggio si infiltri il granello di sabbia capace di sparigliare destini e fortune.
Gli è successo a Bari, anche da capolista in Serie B, di soffrire e non individuare rimedi rapidi contro avversari capaci di inaridire le fonti del gioco. Così Guidolin, che nel 2008-2009 allenava il Parma, vinse 2-0 al San Nicola: con il suo 3-5-2 si garantisce l'uomo in più contro i due mediani del Bari (De Vezze e Gazzi), e con un pressing alto toglie ai biancorossi lo sbocco sulle fasce. All'intervallo, la partita è già decisa.
“Io vivo per la vittoria, sapete che per me esiste una differenza tra vincere e perdere e corrisponde a vivere o morire" diceva nel giorno della presentazione da ct della Nazionale. "Quando perdo, è come se fossi in morte apparente”. Un rapporto così fisico con il calcio e con il suo obiettivo primario, che rimane il risultato, forse non favorisce il pensiero distaccato e il distacco di visione che consente alla ragione di prevaler sull'emozione.
Le difficoltà in Europa
Il suo è un calcio che fa presa presto, che trasforma il gruppo in squadra e ha un impatto trasformativo immediato, perfino nel contesto della Nazionale, il più difficile vista l'impossibilità di un lavoro continuativo con i giocatori. E' un calcio che si esalta nella vittoria, in cui il successo è piacere e motivazione, come ha detto di recente Eden Hazard non proprio a suo agio con gli allenatori italiani che ha visto passare nelle ultime stagioni al Chelsea (Conte e Sarri).
Ma la stessa forza trasformativa non si vede quando lo spartito per qualche motivo stona, quando il piano A non basta a sostenere l'ambizione, l'orgoglio e la passione. Da sergente nella neve, affondò a Istanbul con la Juve in Champions League, nell'ultima partita del girone dell'edizione 2013-14, mentre Vidal e Pogba continuavano a giocare palla a terra in verticale, o almeno a provarci, su un campo che avrebbe invece richiesto una dose massiccia di calcio d'antan, di catenaccio "pane e salame": insomma tirarla alta e lunga e sperare nei centravanti.
Una giornata di confusione totale dell'ex Rudiger ha invece esposto i disequilibri dell'offensivo 3-4-3 del suo Chelsea contro la Roma di Di Francesco nel 2017. E in fondo anche l'attuale campagna d'Europa in nerazzurro è segnata da due sconfitte in rimonta, a Barcellona e Dortmund, che hanno seguito uno sviluppo simile. L'Inter ha giocato due primi tempi sontuosi, poi è successo qualcosa che ha cambiato la disposizione degli avversari: (l'ingresso di Vidal al Camp Nou, un diverso modulo a Dortmund che libera a destra Hakimi, incubo di Biraghi. L'Inter si schiaccia, si perde, annaspa.
Bloccare Brozovic per imbavagliare l'Inter
Le ultime partite confermano la tendenza, e raccontano anche quanto l'Inter dipenda dalla regia di Brozovic, che Gattuso ha imbavagliato nella semifinale di Coppa Italia, come Maurizio De Santis ha ben dettagliato, piazzando Mertens in un ruolo fluido: un po' mezzala, un po' trequartista anche senza palla proprio per togliere spazi di libertà al croato, un po' attaccante. Allontanare Brozovic e le mezzali toglie all'Inter una prima, fondamentale, strategia offensiva che prevede ri-aggressione e verticalizzazione fra le linee alle spalle del centrocampo avversario. Se però, come a San Siro, Sensi non è in giornata e non detta la profondità, e la coppia Zielinski-Ruiz scherma le linee di passaggio, allora l'Inter fa meno paura.
In fondo, per 50 minuti è proprio questo che è riuscito bene al Milan di Pioli, prima che Ibrahimovic spegnesse la luce sul sogno rossonero nel derby. Certo, è anche vero che cambiare un ingranaggio in cui ogni pezzo si incastra secondo istruzioni precise richiede anche tempo. E la prima versione di un possibile 3-4-1-2 con Eriksen trequartista, per un tempo abbondante a Udine, non ha esattamente convinto. La rigidità, in questo, non aiuta.