Il giorno in cui Sami Khedira ha avuto paura di morire: “Non vedevo più, era tutto buio”
Quel giorno Sami Khedira ha avuto paura davvero. Intorno a lui erano calate le tenebre. Stropicciava gli occhi, nulla. Scuoteva la testa, nulla. Nascondeva il viso dietro le mani, chiudeva le palpebre e le riapriva: nulla. Restò impietrito, inghiottito dal buco nero di ansia che lo aveva risucchiato poco prima della partita di Coppa contro l'Atletico Madrid. Il battito del cuore era impazzito: correva come un matto, rallentava e riprendeva a pulsare con una frequenza irregolare er colpa di un'aritmia atriale. E la cecità di quegli attimi fu tremenda.
In testa ti ronzano cattivi pensieri, i peggiori. A raccontarli oggi lo aiuta a elaborare anche il timore di quella sensazione angosciante di perdere tutto in un attimo, da un momento altro. "Era la vigilia della Champions e mi sentivo strano – ha raccontato nell'intervista alla Gazzetta dello Sport -. L’allenamento era andato bene ma il battito del cuore era accelerato e soprattutto vedevo tutto nero".
Può sentirlo ancora adesso. Quel ritmo sfalsato gli è rimasto dentro come il refrain di una canzone: gli torna in mente e toglie il sorriso. Puoi leggerlo negli occhi cosa ha provato in quei momenti. "Per un paio di ore non ho visto niente… era tutto buio". Credeva, si augurava, fosse un malessere passeggero. Che sarebbe passato presto. Che sarebbe andato via solo, senza ricorrere al medico al quale non si rivolse subito. "Pensavo ora passa, ora passa e soprattutto ci tenevo a essere in campo a Madrid – ha aggiunto Khedira -. Però non passava… e dopo due ore mi sono deciso a chiamare il dottore".
Sami Khedira come Stephan Lichtsteiner nel 2015. Entrambi costretti a operarsi per stabilizzare il cuore e guarire. Entrambi finiti allo sprofondo e poi risaliti. Entrambi tornati in campo, alla vita dopo aver temuto il peggio. Che non è (solo) non poter più calzare le scarpette e riprendere a giocare. Perché certe cose non si possono spiegare.