Il coraggio di Luis Enrique, dalla morte della figlia Xana alla rinascita della Spagna
Se si guarda alla storia calcistica e anche umana di Luis Enrique, attuale allenatore della Spagna, viene subito alla mente un aggettivo, quasi per una connessione mentale involontaria. Questo aggettivo è coraggioso.
Il coraggio Luis Enrique lo ha dimostrato da calciatore, fin da giovanissimo. A 20 anni con il piccolo Sporting Gijón sfida i colossi di Spagna e nella sua seconda stagione di Liga segna 14 gol, portando la sua squadra in Coppa UEFA. Il Real Madrid corre a comprarlo per 250 milioni di pesetas, ma deve fare subito una nuova prova di coraggio, questa volta tattica, perché i due allenatori che si avvicendano sulla panchina delle Merengues lo vedono ala o interno di centrocampo e non attaccante, posizione che ricopriva nello Sporting Gijón. Luis ha appunto il coraggio di seguire questa nuova idea, con compiti del tutto nuovi e si adatta all’istante, giocando per ben cinque stagioni con il Real Madrid, vincendo un campionato, una Coppa di Spagna e una Supercoppa.
Quando il tuo presidente, in quel caso Lorenzo Sanz, decide di non rinnovarti il contratto, cosa fai? Scegli la strada più serena, magari andando a monetizzare all’estero? No, coraggiosamente vai nella grande rivale del Real Madrid, il Barcellona e lì diventi un vero e proprio mito anche in ambito internazionale grazie alle vittorie di due campionati, una Coppa delle Coppe e una Supercoppa Europea. Inoltre allenatori come Louis van Gaal si rendono conto che dalla sua posizione a centrocampo Luis Enrique può essere un vero e proprio guastatore e lo utilizzano per la sua energia nelle due fasi, capace di reggere e di correre per 90 minuti, ma anche per le sue doti in zona gol. Basta dire che nelle prime due stagioni blaugrana segna 18 e 25 gol stagionali per sottolineare il suo apporto decisivo.
Diventa capitano del Barcellona e nel 2004 abbandona il calcio giocato, dando campo e spazio a quelli che stanno per arrivare, i vari Iniesta e Xavi prima di tutto, lasciandogli però quel coraggio che poi servirà loro per cambiare il calcio sotto la guida di Guardiola e vincere ovunque, diventando una delle squadre più forti della storia.
Proprio al suo amico Josep Guardiola si mette subito in scia da allenatore, sostituendolo nel Barcellona B, ma soprattutto apprendendo i dettami fondamentali del gioco di posizione che sono alla base della struttura del Barcellona più forte di sempre. Avrebbe potuto tranquillamente aspettare il suo turno, era un uomo del Barcellona, anzi era una parte dell’anima del Barcellona anche contemporaneo e il posto in panchina, appena Guardiola fosse andato via, sarebbe stato suo. Invece fa ancora una volta una scelta di coraggio, spostandosi a Roma e portando con sé quelle idee che hanno fatto grande la squadra spagnola.
A Roma ancora una volta non fa scelte di comodo e non segue la pancia della piazza. Inizia a mettere in panchina il mito per tutti i romanisti, Francesco Totti, e punta in fase di mercato e poi sul campo su giocatori come Simon Kjær, Erik Lamela, Miralem Pjanić, calciatori di cui adesso riconosciamo un enorme valore. L’avventura riesce a durare un anno ma con l’ambiente e parte della squadra è una lotta davvero faticosa. A Roma iniziano a girare appellativi come “Demental coach" e "Lo stordito” e Luis Enrique lascia alla fine dell’ultima partita di campionato, rinunciando a un anno di stipendio.
La casa madre però non lo dimentica e dopo un buon anno al Celta Vigo, torna al Barcellona per ripartire forte. In tre stagioni vince due Liga, tre Coppe di Spagna, una Supercoppa spagnola, una Champions League, una Supercoppa Europea e un Mondiale per club. Nel 2015 vince tutti i trofei inernazionali dedicati agli allenatori, dimostrando di aver avuto di nuovo coraggio nel seguire la scia di Guardiola e Tito Villanova e rinnovare la grandezza del club catalano. Dopo tre anni fantastici, questa volta la Federazione spagnola, dopo la orribile figura fatta a pochi giorni dall’inizio di Russia 2018 con l’affaire Lopetegui, decide di puntare sul miglior cavallo a disposizione e chiama Luis Enrique.
A questo punto della storia per Luis Enrique irrompono in maniera devastante il dolore, la malattia, la sofferenza più atroce possibile. La piccola Xana, la sua bimba di 9 anni sta male, ha un cancro alle ossa che la porterà via. In quel momento l’unico atto di coraggio possibile era stare ogni secondo insieme a lei, per accompagnarla e fermare nella mente ogni attimo della sua vita sulla Terra. Farà proprio questo Luis Enrique, dimostrando che un buon padre è la cosa più vicina a un angelo che possiamo conoscere.
Il 19 novembre 2019, quando tutti ormai non se l’aspettavano più, torna sulla panchina della Spagna, dicendo a tutti che se lui era un uomo che poteva anche guardare avanti, tutti lo avrebbero dovuto fare. E l’orizzonte a cui guarda e a cui punta Luis Enrique è davvero interessante per la Spagna, lo abbiamo scoperto prima e durante questi Europei.
Ancora una volta con un atto di coraggio per pochissimi lascia a casa alcuni pilastri della Generación Dorada, la squadra che ha vinto tutto con Aragonés e Vicente del Bosque, non convoca nessun calciatore del Real Madrid, venendo sommerso di attacchi e insulti da giornalisti e tifosi della Casa Blanca, impone nella sua squadra gente come Pedri, classe 2002 o anche Morata, che in Spagna continuano ad accusare di non essere un buon calciatore e di non impegnarsi con la maglia roja.
Dentro la tempesta lui resiste prima e durante questi Europei, tra minacce, insulti e accuse sempre più forti. Oggi la Spagna però è ai quarti di finale, gioca il miglior calcio in fase di possesso palla, è divertente, dopo un inizio in cui bisognava oliare i meccanismi segna a più non posso e può guardare anche lontano senza che nessuno si metta a ridere. Tutto questo per buona parte grazie al coraggio enorme del suo allenatore, grazie al coraggio di Luis Enrique Martínez García.