Un campionato di Serie A ‘Covid free‘ è impossibile. E chi lo ha solo ipotizzato vuol dire che vive in una dimensione parallela: è un pazzo, un irresponsabile oppure, più semplicemente, un aguzzino che pensa al profitto perché lo spettacolo – volente o nolente – deve continuare. Quanto accaduto al Genoa, che ha riscontrato nel complesso ben 14 casi di positività (le avvisaglie c'erano state con Perin e Schone) dopo aver disputato la partita di domenica contro il Napoli al San Paolo, è la conferma di come anche nello sport (e in altri settori della vita pubblica in generale) non si possa abbassare la guardia rispetto alla diffusione dei contagi da coronavirus. E le recenti modifiche immaginate per il protocollo sono del tutto fuori contesto rispetto al sistema che finora ha permesso al carrozzone di andare avanti.
La scorsa stagione è stata conclusa (al netto di format rivisitati, isolamento degli atleti nei ritiri blindati e aggravi a bilancio per sostenere le spese sanitarie) solo in virtù di quei regolamenti molto rigorosi. Il calcio italiano, che era ripartito rispettando la rigidità della normativa e di una profilassi altrettanto severa, aveva chiesto al Comitato Tecnico Scientifico del Governo di rivedere il regolamento attuale sulla frequenza dei controlli a cui sottoporre il gruppo squadra. Motivo? I costi elevati per 3 mesi di gestione: 8 milioni di euro circa per 56 mila tamponi e 17 mila sierologici, le cifre messe sul tavolo dalla Figc a corredo dei budget onerosi previsti per gli screening.
Ecco perché – prendendo come esempio diretto ciò che accade nelle competizioni internazionali – il Cts ha acconsentito alla riduzione drastica del numero dei tamponi per i calciatori: non più ogni 3/4 giorni, ne basta uno a settimana (al massimo un paio per i club che saranno impegnati nelle coppe oppure in turni infrasettimanali) mentre il test molecolare deve essere effettuato entro e non oltre le 48 ore antecedenti la disputa della partita.
Finora i positivi erano stati individuati subito e preservati in isolamento proprio grazie alla costanza e al numero serrato degli esami. E sembrava una strategia efficace. Quando accaduto al Grifone – nonostante le modifiche al protocollo non erano ancora entrate a regime – è la testimonianza tangibile delle falle attuali anche in relazione alle prescrizioni in corso.
Cosa non ha funzionato, al punto da provocare un focolaio preoccupante? E cosa si fa in una situazione del genere: per giocare si fa appello al buon senso oppure alla indicazioni della Uefa (con un numero di 13 calciatori a disposizione si può andare in campo)? Se con la rigidità attuale si è arrivati a una situazione di tale gravità, è ovvio che diminuendo i controlli aumenti contestualmente il rischio di contagio all'interno della stessa squadra. Morale della favola, se il campionato vuole continuare deve rassegnarsi: o resta nella bolla oppure chiude baracca e burattini.