Gionatha Spinesi: “Feci gol al Milan e mia figlia in ospedale si svegliò, in campo scoppiavo dentro”
Gionatha Spinesi veniva chiamato il "Gabbiano" perché dopo ogni gol apriva le braccia come se stesse spalancando le ali per volare via, tra la gioia e l'entusiasmo di aver visto di nuovo una rete avversaria gonfiarsi. Era quello che sapeva fare meglio, fare male alle difese e ai portieri delle squadre che si trovava di fronte: non importava il valore o la caratura dell'avversario, questo ragazzo classe 1978 nato a Pisa voleva sempre e solo far gol.
Non ha mai vestito le maglie di big della Serie A, nonostante un rapido passaggio nelle giovanili dell'Inter, ma ovunque è andato è entrato nei cuori di tutti: carattere forte e spigoloso ma sempre pronto a dare una mano ai compagni nelle difficoltà e un vero ‘uomo squadra' anche nello spogliatoio. Poi, ad un centravanti veniva chiesto di fare gol e lui ne ha fatti quasi 150 in carriera tra Serie A e B. Se fai il suo nome a Bari, a Catania o ad Arezzo tutti hanno un sussulto.
Oggi Spinesi fa l'allenatore dei ragazzi in una scuola calcio ben organizzata e portata avanti con Tiziano Montefusco, figlio dell'ex calciatore del Napoli Enzo: "Non avrei mai immaginato di diventare allenatore, non pensavo fosse una cosa adatta a me. Invece, eccomi qua”. Gionatha Spinesi si racconta a Fanpage.it come mai aveva fatto dopo il suo ritiro dal calcio giocato: le esperienze di Bari e Catania, il suo nuovo percorso da allenatore e qualche aneddoto sulla sua carriera ricca di gol.
Cosa fa oggi Gionatha Spinesi?
“Da un anno e mezzo sono socio di una scuola calcio con Tiziano Montefusco e Alfonso Ciccarelli, siamo all’inizio ma stiamo andando bene le cose. I ragazzi sono bravi e ci stiamo togliendo diverse soddisfazioni con diverse società professionistiche che ne hanno attenzionati tanti".
Era più difficile fare l’attaccante qualche anno fa in Serie A o adesso?
"Io credo che molti attaccanti degli anni ’90 oggi si divertirebbero un sacco per come è cambiato il calcio. Naturalmente non c’è riprova, ma è una mia opinione. Oggi si chiede un lavoro di raccordo, di cucitura del gioco, ma in alcune squadre questo si faceva già. Detto ciò, oggi non si difende più come prima e ci sono spazi che noi ci saremmo sognati ai nostri tempi. Noi per fare gol dovevamo sfruttare il minimo errore che ci concedevano, oggi avremmo più spazio e forse avremmo fatto anche gol in più. Anche sugli autogol, prima bastava un minimo tocco e ti toglievano il gol mentre ora va sempre all’attaccante. Non ci sono più i finalizzatori di una volta nel nostro campionato, parlando di caratteristiche. Il VAR e qualche regola cambiata hanno agevolato gli attaccanti, ma io credo che non sia solo quello il punto".
E qual è, se posso.
"Secondo me non esistono neanche più prototipi di attaccanti che hanno determinate caratteristiche, o meglio, chi si identificano un pochino di più come finalizzatore puro. Oggi, a mio parere, abbiamo difficoltà anche a livello di Nazionale perché non ci sono più giocatori con quelle caratteristiche. Quei prototipi lì è difficile andarli a trovare. Il punto di domanda vero, per il quale non ho la contro prova, è se quei prototipi non sono più buoni nel calcio di oggi o bisogna chiedersi perché non abbiamo più a disposizione calciatori che sappiano fare determinate cose. Io ho vinto il campionato europeo Under 21 con Abbiati, Zambrotta, Ambrosini, Pirlo… giocavano titolari nelle squadre di Serie A già quando erano in U21. Oggi è difficile trovare una cosa del genere".
A proposito di giovanili, lei si è formato all'Inter.
"Io ho fatto il mio esordio con l’Inter in un’amichevole contro il Manchester United. Giocai tre minuti, più quattro di recupero, al posto di Zamorano se non erro. Mi ritrovai all’Inter da un giorno all’altro perché fino al giorno prima mi allenavo con i ragazzi dell’Interregionale a Pisa, dove avevamo una squadra forte che poi vinse il campionato. Un giorno facevo stretching con i miei amici e quello dopo avevo di fianco Zamorano, Carbone, Branca, Ince, Roberto Carlos, Pagliuca. Ho quell'immagine lì davanti, guardavo e mi sembrava un sogno".
È vero che Mazzola l’aveva messa a fare le le fotocopie nel suo ufficio?
"Ad un certo punto dissi al direttore di non voler più andare a scuola e lui mi mise a lavorare con Ileana, la sua segretaria. Ho sempre avuto molto rispetto per lui, perché mi ha trattato bene dal primo momento e mi dava tanti consigli che poi, quando sono cresciuto, mi sono ritrovato e quindi l'ho sempre ringraziato".
La sua parentesi all’Inter finì col passaggio al Castel di Sangro. Che piazza era?
"Corretto. Il direttore mi chiamò e mi disse: ‘C’è una squadra in Serie B che ti vorrebbe’. Non ho chiesto nemmeno il nome, gli dissi subito sì. Volevo mettermi in gioco e non mi importava il nome. Arrivai in città un venerdì e dopo una settimana sono diventato titolare".
Poi si aprì il capitolo Bari.
"Fascetti prima di farmi firmare mi ha voluto incontrare. Avevo 19 anni e andai a Viareggio dove stava lui. Parlammo e ci trovammo subito in sintonia. Sono stati tre anni con lui, bellissimi".
Che personaggio è mister Eugenio Fascetti?
"Carismatico. Ti trasmetteva tanto e ti dava responsabilità, ti faceva sentire parte integrante di qualcosa. A livello proprio caratteriale mi ha saputo trasmettere quello che realmente è l'essenza del calcio, l’aspetto dei sacrifici, dell’impegno e della meritocrazia. Lo devo a lui. Sicuramente è stato una delle persone più significative per me nel calcio e che mi hanno insegnato più di tutti sotto questo punto di vista".
Come mai Spinesi andò via da Bari?
"Perché nell’anno in cui mi scadeva il contratto mi chiesero di andare via a gennaio, avevano bisogno di fare cassa. Io a Bari stavo bene ma sapevo di fare del bene al club: venne intavolata una situazione tra Matarrese e Naldi per il mio passaggio a Napoli. Tra l'altro mia moglie è di Napoli, quindi sarebbe stato comunque un coronamento di un sogno mio familiare. Si arrivò all’ultimo giorno di mercato e non se ne fece nulla, anzi arrivai allo scontro con la società. Dopo tante discussioni firmai la rescissione e me ne andai a casa. Mi sono allenato da solo dal marzo fino a giugno. Tutti i giorni. Il Bari retrocesse, dopo lo spareggio con il Venezia, ma fu ripescato. Non doveva finire così a Bari, ma non fu colpa mia".
Dopo c’è stata la parentesi Arezzo, che è stata importante per lei.
"C’era un allenatore non conosciuto ma del quale tutti quanti mi parlavano bene per le sue idee di calcio e così accettai. Quest'allenatore era Pasquale Marino. Arrivarono Del Core, Robertino De Zerbi e tanti altri… ed è stato uno degli anni più belli perché, al di là della salvezza ottenuta, mi sono divertito a giocare a calcio. Era uno spettacolo, facevamo un calcio divertente con una squadra che si basava su un mix di esperti, giovani e alcuni novelli per la B".
Poi vi spostate in blocco a Catania, lei e Marino.
"Sì, diciamo che Marino ha firmato prima e io mi sono fatto attendere un po’ di più, ma avevamo un rapporto talmente bello che lui mi chiamava a qualsiasi ora e in qualsiasi giorno. Un giorno mi fece parlare a telefono con Pietro Lo Monaco e mi chiese di andare lì per parlare del progetto che avevano in mente. Per me Catania è diventata la seconda casa. La cosa bella di tutte queste esperienze sono i ricordi con le persone, non tanto i gol".
Si spieghi meglio…
"Noi siamo cresciuti in mezzo alla strada e ci piaceva quel tipo di rapporto con le persone, ora mi sembra che non è sempre così. Io dopo gli allenamenti, a Bari come ad Arezzo, mi fermavo con i vecchietti a giocare a carte. Cose che oggi sarebbero impossibili con i ritiri sempre mezzi blindati e calciatori che si concedono sempre meno".
Che compagno di squadra era Roberto De Zerbi? Si intuiva che poteva fare l’allenatore ad un livello così alto?
"Roberto è malato di calcio. Ad Arezzo e Catania abbiamo vissuto insieme una bellissima esperienza e le nostre famiglie si frequentavano in maniera costante. Siamo molto amici. Comunque sì, era evidente che avesse qualcosa in più perché si faceva mandare le partite registrate, ne guardava due o tre la mattina, ritornava dall'allenamento e ne vedeva due la sera: esponeva dei concetti di calcio anche nello spogliatoio, ma nessuno lo capiva. Gli dicevo ‘Roberto ma te parli arabo, non capiscono quello che te dici… le giocate, le uscite, non ti capiscono’. Alla fine stava parlando del futuro del calcio".
C’è un gol che reputa come il suo più bello e uno che ha più significato.
"Domanda sempre difficile, ma quello fatto col Catania al Milan sul campo neutro di Bologna forse racchiude entrambe le cose. Un tiro al volo bello per coordinazione e precisione, ma mentre giocavo stavo scoppiando dentro. Pochi giorni prima era nata mia figlia e c’erano state delle complicazioni. Io ero stato con lei e mia moglie fino al venerdì, ma il sabato sono andato in ritiro. La curavano e riceveva tutte le attenzioni, ma chi è genitore può capire cosa ho provato in quei momenti. I dottori mi dissero che quello era il posto più sicuro per lei e che io potevo andare. Naturalmente la mia mente era sempre lì. Giocavamo di domenica, misi la sveglia ogni due ore per chiamare l'ospedale per chiedere informazioni al primario di turno. Mi addormentavo, mettevo la sveglia alle due e lo chiamavo, mettevo la sveglia alle quattro e lo richiamavo. La cosa incredibile è che la bimba si svegliò nel momento in cui io feci gol e ancora oggi mi vengono i brividi. Quando esultai guardai il cielo e mi feci il segno della croce perché pensavo a lei, ma io non potevo sapere cosa era appena successo. Ecco perché questo è il gol più bello per me".