Cosa (non) è il Napoli di Gennaro Gattuso lo dice anche l'interpretazione della partita persa contro la Juventus in finale di Supercoppa Italiana. Una squadra in assillante ricerca di autore e di se stessa. Un giorno d'assalto all'arma a bianca, un altro ancora pavida e rintanata in trincea mentre le pallottole fischiano sulla testa. Si accende a sprazzi, vive di spunti individuali, fiammate improvvise che sono ben altra cosa rispetto al gioco verticale e alle accelerazioni. Con Insigne impaludato in compiti difensivi, sfiancato dalla necessità di tamponare Cuadrado e non lasciare troppo solo Mario Rui, i partenopei hanno perso una delle poche fonti d'ispirazione. Sono rimasti arroccati nella loro metà campo, soffrendo la pressione alta dei bianconeri: se l'ipotesi immaginata era gestire l'andamento del match e poi colpire al momento opportuno, allora nulla è riuscito di quel piano.
Il Napoli – al netto di una Juventus un po' più ordinata e consapevole di sé rispetto a San Siro con l'Inter – ha solo subito l'inerzia dell'incontro mostrandosi troppo timido per essere lo stesso che predilige atteggiamenti spregiudicati. Tant'è che questa volta lo stesso Gattuso non ha potuto sfoggiare, come spesso accade, i numeri delle conclusioni effettuate o delle potenziali occasioni da gol fallite: 1 grande opportunità creata, 8 i tiri complessivi, 3 nello specchio della porta, 2 dei quali opera di Lozano che in totale ha toccato 35 palloni. Pochi davvero, non solo per la maggiore caratura dell'avversario.
La squadra ha avuto paura di scoprirsi? Il tecnico ha pensato che fosse questa la soluzione migliore per stanare la Juve? Difficile dire cosa avesse in mente l'allenatore, che in attacco non disponeva certo dell'agilità e della rapidità di Mertens (appena entrato, ha procurato il rigore), ma i dati statistici (indicati nel match report ufficiale della Lega di Serie A) mostrano come il baricentro sia stato proprio di chi ha badato più a contenere che a costruire. E quando ha provato a uscire dal guscio, lo ha fatto con molta fatica e prevedibilità alla ricerca di uno spazio che nemmeno avrebbe saputo come creare. Gli azzurri non sono stati in grado di fare altro, né sembravano disporre di un'alternativa a quell'idea che non fosse il guizzo improvviso del ‘Chucky' (ancora una volta il più pericoloso anche per numero di dribbling, 4) o l'invenzione tirata fuori dal cilindro da Zielinski. Nemmeno la Juve s'è distinta per il numero o la particolare efficacia delle azioni prodotte ma la differenza sul modo in cui ha avanzato la proposta di gioco è stata palese.
Nella sfida di Reggio Emilia al ‘maestro' è bastato impostare una pressione alta affidando a Cuadrado e a Mckennie il compito di portare scompiglio tra le linee dei partenopei mentre Bentancur e Arthur (73 tocchi, 4 palle lunghe, 60/61 passaggi riusciti, 35 palle appoggiate in avanti 1 passaggio chiave, 2 dribbling riusciti) recitavano il ruolo di lotta e di governo a centrocampo. Sull'altro fronte non c'è mai stata contromisura efficace, che non sia stato il forcing disperato nel finale, oppure capacità di far scivolare la partita verso un'altra conduzione tattica, che non fosse una difesa a oltranza, una rinuncia costante, consegnando alla Juventus il dominio dell'incontro.
Se la gara contro la Fiorentina aveva restituito fiducia e certezze smarrite contro Udinese e Spezia, quella con i bianconeri ha confermato che questa squadra non si capisce bene quale identità abbia e cosa debba fare. Non aveva di fronte a sé un avversario fortissimo, come negli anni scorsi. Cristiano Ronaldo, in gol per una carambola sfortunata di Bakayoko, non è stato ancora una volta all'altezza della sua fama. Pirlo non è certo un fine stratega e, paradossalmente, ‘ringhio' ha anche maggiore esperienza in panchina rispetto all'ex compagno milanista ma mercoledì sera questa differenza non è stata affatto evidente. E il Napoli esce (ri)dimensionato dall'ennesimo confronto diretto della stagione: la Juve dopo Milan e Inter.