Fabio Caressa a Fanpage.it: “Troppe partite trasmesse in TV, abbiamo abbandonato i tifosi”
"Andiamo a Berlino!". Tre parole che racchiudono un intero universo attorno all'evento più importante di tutti gli sport, un Mondiale. Una frase che – dall'oramai lontano 2006 – è entrata a fare parte dell'immaginario collettivo calcistico italiano, nella quale convergono emozioni, gioie e ricordi straordinari della cavalcata azzurra in Germania. Merito di Fabio Caressa, giornalista, conduttore, autore, commentatore, la cui voce ci ha accompagnato in quell'estate dorata in cui abbiamo potuto partecipare al trionfo della nostra Nazionale su tutto e su tutti. Come anche la scorsa estate agli Europei, a 15 anni di distanza. Insieme a Caressa, in una lunga chiacchierata esclusiva nella redazione di Fanpage.it, abbiamo rivissuto quei momenti irripetibili e tanti altri, tra il suo mondo e il calcio di ieri, oggi e domani. Affrontando anche l'amarezza dell'ultima esclusione dell'Italia dai Mondiali, che lo stesso Caressa senza mezzi termini o giri di parole ha definito "la più grande sconfitta di sempre del calcio italiano".
Fabio, nel 2006 come nacque quella frase, "Andiamo a Berlino", che ancora oggi ti identifica?
"Ha segnato una buona parte della mia carriera, ma non c'era alcunché di preparato o artefatto. Tutto nasce da un carissimo amico, che non c'è più, con cui viaggiavo nel 2006 e che mi ripeteva sempre: "Facciamo le valigie e andiamo qui e là". E allora mi è venuta questa frase, che è stata poi quella che ha trascinato me e Beppe. Mi ricordo che prima della partita, mentre ci avvicinavamo allo stadio, parlavo con un collega e dicevo: "Oggi la faccio così, andiamo come viene, la faccio di pancia perché gli italiani oggi la sentono di pancia"".
E della finale cosa ti ricordi?
"Tutto. Ricordo che faceva caldo, che abbiamo fumato una sigaretta di nascosto prima della partita, che prima dell'inizio dei supplementari cercavo di fumarne una seconda e arrivò un inserviente che mi disse che non potevo. Gli risposi malissimo. Dopo quella partita ero sfatto: c'è una foto in cui sono abbracciato con Beppe, stremati per le emozioni e il caldo. L'avevamo giocata anche noi e finita in piedi, urlando".
A proposito di Beppe Bergomi: siete una coppia inscalfibile.
"Praticamente è come se fosse mio marito, siamo sposati dal 1999. Facemmo una prova di telecronaca commentando un vecchio Juventus-Milan, uscimmo da quella saletta e io dissi subito a Beppe: "Sei nato per fare questo mestiere qui". Nessuno ha i tempi di Beppe, l'intervento secco, il non parlare più del 30% tempo. Non parla tanto, ma dice le cose: è portato, ha un dono naturale".
Un altro compagno di viaggio, che però ha preso una strada differente, è stato Lele Adani.
"Lele è molto preparato, se mi posso permettere un po' preconcettuale in alcune cose, ma è tipico di chi ha un pensiero molto forte. Lele è un emotivo e con grande trasporto cerca di trasmettere agli altri. Il suo addio a Sky? Credo che nella vita arrivino dei momenti professionali in cui certe idee, tra linee editoriali e libertà di pensiero, non collimano più. In quei casi è meglio separarsi, piuttosto che proseguire con la bocca storta. Ora lui ha trovato anche uno spazio importante e sono molto contento".
Lo stesso spazio che ospita le opinioni di Antonio Cassano, a volte molto critico anche con voi di Sky.
"Spesso le cose che urla vengono riferite a noi del Club ["Sky Calcio Club", programma d'approfondimento condotto da Fabio Caressa, ndr], un po' come se ce l'avesse con noi. Recentemente si è detto che ce l'avesse con Di Canio, fatto che lui stesso ha smentito. Io penso che parlasse in generale: un uomo che ha fatto del coraggio espressivo tutto il suo credo e la sua vita, nel caso parlasse di qualcuno in particolare, avrebbe avuto il coraggio di dire con chi ce l'aveva".
Tornando al percorso al fianco della Nazionale: in cosa sono stati diversi gli ultimi Europei?
"Io ci credevo abbastanza, ma chi ci credeva per davvero era Beppe. Io ero l'unico che ci credeva nel 2006. La scorsa estate invece era Beppe, dalla prima partita. La finale è stata una grande emozione, forse anche più grande del 2006. Primo, perché avevo consapevolezza; secondo, perché venivamo dalla pandemia; terzo, perché era la prima finale che vedeva mio figlio a casa, partecipe quindi partecipava; quarto, perché non sapevamo con Beppe se avremmo continuato dopo degli Europei ancora insieme; e quinto, perché sentivamo con Beppe che il percorso era molto simile a quello del 2006, a livello di emozione crescente".
Ti sei fatto un'idea di cosa sia successo contro la Macedonia?
"Bisognava ricostruire quella bolla e non è facile. Ti resta in testa la memoria della finale, ma nella partita dopo devi ricominciare da capo e non trovando quella stessa emozione poi la paghi, come è accaduto agli azzurri. Cercavano nella testa le stesse emozioni che però non potevi ritrovare, perché non eri alla fine di un percorso ma all'inizio di uno nuovo. Pensare adesso solo al 2026 è un grande dolore, ma abbiamo deciso di rimanere con gli stessi uomini che avevamo. Credo sia giusto che Mancini abbia deciso del suo futuro perché è un uomo che ha vinto. Ma non escludo che avverranno novità: è stata nettamente la più grande sconfitta della storia del calcio italiano e nei prossimi due mesi diventeremo un po' più razionali su quello che bisogna fare per colmare questo vuoto".
Un vuoto che abbraccia due generazioni di ragazzi, che cresceranno senza sapere cosa significa avere l'Italia ai Mondiali.
"La cosa che mi dà più fastidio è mio figlio che è del 2009 e non ha ancora visto un Mondiale con l'Italia. Hai voglia a dire che ce ne sono talmente tanti davanti che non te ne accorgerai neanche: invece sono proprio quelli gli anni in cui i ragazzi si avvicinano al calcio. Il primo Mondiale ce lo ricordiamo tutti, generalmente è la prima cosa che vedi del pallone e quindi questo lascerà un buco incolmabile. Poi Mancini decide liberamente, la Federazione decide liberamente, però non la liquidiamo come fosse una cosa normale perché se no è un dramma. Significherebbe che ci stiamo abituando a non giocare un Mondiale".
Intanto ci stiamo abituando ad un nuovo racconto dello sport e del calcio. Nuovi player, streaming, i social…
"Credo moltissimo nei nuovi canali. Ritengo che possano diventare una forte community e una forte aggregante di opinioni sul pallone. Si può fare indirizzando le scelte sulla strada di ciò che vogliono i fruitori del calcio, ovvero i tifosi che abbiamo abbandonato in questi anni. È cambiato il rapporto di fruizione e l'ha cambiato internet. C'è bisogno di interattività, intesa come un pensiero comune, per dare forza ai cambiamenti. Un atteggiamento proattivo, una circolazione di idee proficua".
Si è fatto un errore in questi anni?
"Credo che oggi si sia andati troppo oltre sul numero di partite che vengono trasmesse. Alcune partite di scarso interesse bisogna metterle tutte insieme. E il prodotto va lavorato ancora di più, non farlo sarebbe un errore. Soprattutto sulla presentazione e il post delle partite. La creazione dell'evento, insomma. Perché oggi quello che funziona sono gli eventi in diretta".