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“Dio, se mi salvi dirò al mondo che esisti”: le ultime parole del sopravvissuto della Chapecoense

Helio Neto fu l’ultimo ad essere estratto dalla carcassa dell’aereo della Chapecoense che esattamente 5 anni fa si schiantò contro una montagna: un disastro che spazzò via un’intera squadra di calcio, con soli 3 giocatori sopravvissuti.
A cura di Paolo Fiorenza
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Il 28 novembre 2016 è una data che riporta alla memoria un episodio che sconvolse il mondo del calcio ed occupò le prime pagine di tutti i giornali. Esattamente cinque anni fa un'intera squadra di calcio veniva spazzata via in un terribile incidente aereo avvenuto in Sudamerica. La Chapecoense – imbarcata sul volo LaMia 2933, un charter di una compagnia boliviana che l'avrebbe dovuta portare all'aeroporto di Medellin in Colombia per disputare la finale della Copa Sudamericana contro il Nacional – non arrivò mai a destinazione. L'aereo su cui viaggiava si schiantò, per l'esaurimento del carburante, contro il fianco di una montagna.

Delle 77 persone a bordo – 9 dell'equipaggio e poi calciatori, dirigenti e giornalisti – ne morirono 71, di cui 19 tesserati del club brasiliano. Si salvarono solo 3 giocatori: il portiere Jakson Follman, cui fu amputata una gamba, il difensore Alan Ruschel, tuttora in attività, e un altro difensore, Hélio Hermito Zampier Neto, meglio noto come Neto. Quest'ultimo dopo la riabilitazione tornò a giocare, salvo poi ritirarsi a fine 2019: "Il mio corpo non ce la fa più".

Oggi, a 36 anni, Neto ricorda quei terribili momenti che resteranno per sempre nella sua testa, in un'intervista al quotidiano El Tiempo: "Non volevo viaggiare. Ero molto spaventato. Quel giorno mi sono svegliato e ho sentito che c'era qualcosa di diverso". Era accaduto che qualche giorno prima Neto aveva avuto un incubo: esattamente un incidente aereo in cui lui è l'unico sopravvissuto, una premonizione che fa venire i brividi. "Quando stavo andando in Bolivia per prendere l'aereo, ho mandato un messaggio a mia moglie chiedendole di pregare perché il sogno era tornato alla mia testa ed ero molto nervoso. Ma dovevo calmarmi. Non potevo spaventare i miei compagni di squadra con quello che avevo sognato, volevo che fossero calmi. È stata molto dura perché dopo la tragedia, quando sono tornato in Brasile e i dettagli dell'incidente hanno cominciato a tornare alla mia memoria, ho capito che il mio incubo era quello che era successo. Dall'inizio alla fine. Tutto quanto".

Neto con gli altri due calciatori della Chapecoense sopravvissuti
Neto con gli altri due calciatori della Chapecoense sopravvissuti

Neto era seduto nei sedili di mezzo – circostanza che lo ha miracolosamente salvato – ed intorno a lui i calciatori della Chape non smettevano di scherzare e parlare della vittoria che sognavano di ottenere. Un paio d'ore dopo quasi tutti dormivano, fino al momento in cui fu annunciato che stavano per atterrare all'aeroporto di Rionegro ad Antioquia, a circa 40 chilometri da Medellin. Si prepararono all'atterraggio, ma i minuti passavano e l'aereo non raggiungeva il suolo. Poi le luci si spensero. Neto sentiva che l'aereo tremava, che i motori avevano smesso di fare rumore: era finito il carburante ed era finita anche per loro. Il tempo di pochi istanti: "Le mie ultime parole, prima della tragedia, sono state rivolte a Dio: so che sei presente. Ti chiedo di aiutarci. Se mi tieni in vita, se sopravvivo, mi dedicherò a comunicare al mondo che esisti".

Erano le 10 di sera e il velivolo si schiantò contro il Cerro Gordo: mancavano ancora 17 chilometri alla pista dell'aeroporto. Neto, che allora aveva 31 anni, fu l'ultimo ad essere salvato. Sei ore dopo l'incidente, quando nessuno pensava che qualcun altro potesse essere vivo, un agente di polizia sentì un gemito. Poi lo vide. "Ricordo bene l'incidente, ma non ricordo nulla del salvataggio – racconta adesso – Mia moglie è stata quella che me lo ha detto dopo. Ha detto: Dio è stato generoso con te, perché sei stato l'ultimo a essere trovato. Immaginate di lamentarti senza che nessuno possa sentirti, perché era qualcosa di molto debole. Soffrivo molto. Ma dopo quel gemito, il dolore fisico è passato. E non ricordo più nulla". Il giocatore fu portato in ospedale all'alba e tenuto in coma farmacologico per dieci giorni per cercare di salvargli la vita, col supporto della ventilazione meccanica. Stavano non solo cercando di salvarlo da un trauma toracico e da un trauma cranico, ma da una grave infezione batterica. Tra i 6 sopravvissuti era lui che si trovava nelle condizioni più critiche.

Quando poi riuscì a respirare da solo, non sapeva dove fosse: "Mi sono svegliato e ho visto mia moglie, mio ​​padre, mio ​​fratello, un mio grande amico, un pastore di una chiesa in Brasile. Ho sentito persone parlare in spagnolo. E poi mi sono chiesto: sono in un altro Paese? Perché la mia famiglia è qui? In quel momento, tutto quello che volevo era raccontare a mia moglie un sogno che avevo fatto. Perché per me, durante il coma, ero con Dio, fuori dal pianeta. Se guardavo in basso, vedevo la Terra; se alzavo lo sguardo, vedevo un essere infinito che mi guardava e mi parlava, ma non aveva né bocca né occhi. Una forma non umana che mi diceva di stare calmo. È quello che volevo dire a mia moglie appena mi sono svegliato. In quel momento stavo cercando di trovare risposte a tutte le mie ferite. Non capivo come potessi essere in un ospedale in condizioni così gravi".

Neto quando è tornato sul luogo dell'incidente
Neto quando è tornato sul luogo dell'incidente

La vita ha dato a Neto quella seconda possibilità negata a quasi tutti gli altri che erano su quell'aereo. Sebbene non sia in campo come giocatore, oggi è ancora legato alla Chapecoense. Tra le altre mansioni, è stato responsabile delle categorie giovanili, in cui milita anche il figlio quattordicenne Helam, uno dei gemelli che ha avuto dalla moglie Simone: "Di cosa ho paura oggi? Di niente. E oggi non faccio programmi. Prima della tragedia, avevo piani per cinque, dieci anni in avanti. Oggi vivo la vita ogni giorno, sapendo che potrebbe finire. E che devo godermi di più la mia famiglia. I bambini crescono, io e mia moglie stiamo invecchiando. Le opportunità si presentano e a volte si sta fermi, credendo che questa vita sia per sempre. Molte volte pensiamo solo al lavoro e al lavoro, al successo e ancora al successo. Non alla famiglia. Prima avevo paura della morte, non più. Dio mi ha dato l'opportunità di rimanere in vita, ma oggi non vivo per me stesso: vivo per gli altri".

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