De Leo racconta l’ultimo Mihajlovic: “Aveva un modo di fare sconvolgente, ti sentivi piccolo”
"Se devo scindere gli insegnamenti tecnici da quelli morali faccio un po’ fatica perché, in realtà, tutto si è un po’ mescolato. Sicuramente mi ha insegnato a non lasciare nulla di intentato, davanti alle difficoltà e al destino bisogna dare tutto". Così Emilio De Leo ha parlato dell'insegnamento più grande che Sinisa Mihajlovic gli ha lasciato. Esattamente un anno fa, il 16 dicembre del 2022, l'ex calciatore e allenatore moriva a Roma dopo l'improvviso aggravarsi delle sue condizioni di salute in seguito a mesi di terapie e di cure per una forma di leucemia mieloide acuta.
L'allenatore nato a Napoli ha lavorato al fianco di Mihajlovic per più di dieci anni e anche nella tesi del corso Uefa Pro ci sono molti riferimenti all'ex calciatore e allenatore serbo: "Mi piace pensare che sia rappresentata la sua anima che si è intrecciata con la sua in questi anni". Emilio De Leo a Fanpage.it ha ripercorso tutti gli anni passati insieme, i momenti più difficili che sono rimasti nascosti e quelli che abbiamo avuto modo di conoscere tutti. Un ricordo dal grande impatto emotivo, che fa capire ancora di più perché Sinisa Mihajlovic è sempre stato amato e rispettato da tutti.
Ricorda il primo incontro con Mihajlovic?
"Nel 2011-2012 ci siamo incontrati per la prima volta di persona ma prima ci eravamo sentiti per una collaborazione a distanza quando lui allenava per la prima volta il Bologna nel 2008. Ma c’era sempre una persona che faceva da tramite. Poi c’è stato il primo incontro a Roma, quando sono stato invitato a casa sua poco prima dell’incarico con la nazionale serba. Io ero molto emozionato e non sapevo nemmeno bene che persona mi trovavo di fronte e che incontro sarebbe stato. Ero molto teso e lui mi accolse nel suo megasalone con visita stadio Olimpico. Io arrivai col mio zainetto. Aveva questa strategia di accoglierti in un posto molto confortevole per lui e un po’ meno per te per capire chi aveva di fronte".
Avete iniziato a lavorare insieme con la nazionale serba?
"Sì. Abbiamo fatto una prima fase di amichevoli con un trittico che ci mise di fronte a Spagna, Francia e Svezia. Dopo iniziarono le qualificazioni per i Mondiali in Brasile e arrivammo terzi in un girone con Belgio, che arrivò primo con Hazard, De Bruyne etc etc; e la Croazia dei vari Modric & co. Dopo una serie di amichevoli ci chiesero di rinnovare ma ci fu questa chiamata dalla Sampdoria e decise di accettare. Era molto legato al club blucerchiato e accettò".
Com’era lavorare al fianco di Mihajlovic?
"Sicuramente non era facilissimo, perché era un professionista assoluto che aveva delle aspettative altissime con la mania per la cura dei particolari. Dettava subito le regole e dovevi rientrare in questo ambito senza andare oltre. Se riuscivi a farlo, lo conquistavi e si instaurava una relazione sincera e leale. Si aspettava tanto da te, a qualsiasi ora della giornata e in qualsiasi momento dell’anno poteva arrivare una sua richiesta. Se si rendeva conto che dall’altra parte c’era serietà, rispetto e professionalità lui ti mostrava e ti dava rispetto".
In che modo, e se è cambiato, il suo modo di lavorare dopo aver scoperto la malattia?
"Se ti devo dire che c’erano aspetti che erano stati ridimensionati dalla vicenda che stava vivendo ti devo dire di no. È chiaro che potevano esserci dei momenti in cui era ancora più esigente perché non essendo presente lì con noi per lui era una grande frustrazione. Era un leone in gabbia perché avrebbe voluto fare tantissimo e uscire da quella stanza per venire ad aiutarci, riprendere le fila in momenti in cui le cose non andavano come avrebbe voluto. L’approccio non era cambiato perché coordinava in maniera presente il lavoro. Da un punto di vista di aspetti umani, che si intrecciavano con quelli professionali, chiedeva tanto al gruppo perché in quei momenti si voglia cercare la sponda da parte nostra e anche i calciatori si sono sentiti più responsabilizzati, ma lui era sempre il leader e non ha mai mollato".
Come e quando l’avete scoperto?
"In realtà noi dello staff l’abbiamo saputo qualche ora prima che fosse resa pubblica. Noi abbiamo avuto un messaggio dal direttore Bigon che ci aveva messo al corrente della situazione in maniera più concreta rispetto a quello che potevamo pensare noi. Fino a quel momento del ritiro sapevamo che non stava bene e che ci avrebbe raggiunto in ritiro ma non c’eravamo allarmati. Ti ponevi qualche domanda ma non più di tanto. Eravamo organizzati e siamo subito partiti per fare il nostro lavoro e per centrare i nostri obiettivi. Riuscivamo comunque sempre a sentirci e il lavoro andava avanti, quindi da quel punto di vista non c’erano state grosse difficoltà".
Tutti abbiamo ancora nella memoria la sua presenza a Verona dopo 40 giorni in ospedale dove si era sottoposto alla prima parte delle cure: voi come avete vissuto quel momento?
"Noi non lo sapevamo, tanto che quando iniziò a girare sta notizia sembrava assurda. Poi lui arrivò prima della partenza del bus per lo stadio in occasione della riunione tecnica: fu del tutto inaspettata e non immaginavano mai che potesse essere lì. Non ci sembrava possibile e reale. Di lì a pochi minuti, chiaramente accompagnati dall’emozione, era salito il senso di responsabilità e di dargli una mano visto che dall’altra parte un segnale. È difficile utilizzare le parole giuste. Poi tutti portammo la concentrazione sulla partita con i compiti specifici e la strategia era quella, andare sulle mansioni di ciascuno. Sicuramente fu molto emozionante e non fu facile per tutti noi ma non c’era cosa che potesse reggere al confronto".
Un altro momento che è rimasto negli occhi di tutti è la visita dei calciatori del Bologna sotto la finestra dell'ospedale: che ricordo hai di quegli istanti e come te ne ha parlato lui dopo.
"Dopo la rimonta col Brescia, dove perdevamo 3-1 e vincemmo 4-3, ci venne questa idea di andare a salutarlo. Lui apprezzò molto, ci salutò e ci ringraziò ma subito dopo ci disse ’Si, però, nel primo tempo non mi siete piaciuti ma ne parliamo in settimana’. Poi nell’analisi ripartimmo proprio dagli errori e da quello che potevamo fare meglio. Erano sempre momenti da bilanciare perché si veniva sempre dall’adrenalina della partita e dalla tensione della gara e di dover dimostrare di saper gestire la situazione. Tutto veniva amplificato e quando eri riuscito a portare a casa una situazione così complicata, vincendo quel tipo di partita, magari dall’altra parte ti aspettavi una reazione diversa, che si ammorbidisse il post-gara. Invece no, il modo per dire siete stati bravi era bacchettarti".
Ad un certo punto sono diventati pubblici i video delle riunioni dall'ospedale con la squadra: come le vivevate voi e lui in che modo si rapportava con la squadra?
"Lui procedeva dritto, in modo ordinario, mentre dall’altra parte c’era un atteggiamento, soprattutto all’inizio, straordinario per quello che stava accadendo. Era quello il paradosso. C’erano dei momenti coinvolgenti da un punto di vista emotivo, legati al momento e alla vicenda, ma lui riusciva ad essere sempre concentrato sulla normalità. Ciò che ci sconvolgeva era proprio quel modo di fare perché ti sentivi piccolo davanti a quella situazione. Lui dall’altra parte riusciva a tirarti fuori una carica e una grinta che pensavi di non avere. A volte ho pensato di dover fare di più e di dare qualcosa in più vedendo quello che faceva lui in un momento del genere. A volte noi ci facevamo prendere dallo scoramento e queste cose poi ti tornano in mente ma tutti abbiamo cercato di essere lucidi e freddi, ligi alle mansioni e assumerci le responsabilità come ci chiedeva lui. Per me è stato diverso ma tutti hanno dovuto fare gli straordinari perché bisognava riempire degli spazi che erano molti forti e di cui si occupava lui".
Com’era la gestione del lavoro quotidiano con lui in ospedale e come voi dello staff avete gestito questa grande responsabilità?
"Secondo me eravamo organizzati bene da un punto di vista delle mansioni all’interno del gruppo di lavoro e lui ci coordinava in maniera eccellente con briefing pre e post allenamento, seguiva le sedute con video live e poteva interagire con chiamate e auricolari. C’era grande determinazione e motivazione da parte sua ed è stato un punto di riferimento per tenere tutto in piedi, oltre ad un gruppo di lavoro buono e credibile insieme ai calciatori che hanno mostrato sempre senso del dovere e di responsabilità nei momenti più complicati. Quello che siamo riusciti a fare è stato un processo fatto di valori morali che va oltre gli aspetti tecnico-tattici figli del momento“.
C’è qualcosa che le ha detto uno o più calciatori, in quei momenti, che ancora le fa venire i brividi?
"C’era un senso di responsabilità talmente alto da parte di tutti ma era difficile che qualcuno mollasse la presa. In quel caso c’era uno scambio forte: lui lo faceva da sempre, e in quel momenti ancora di più per essere ancora di più la guida, e noi lo facevamo a prescindere da tutto. È qualcosa che è venuta fuori nella tragedia ed è un insegnamento, un messaggio, talmente nobile, ed giusto che i ragazzi ne vadano fieri di come si sono comportati. Tanti momenti di commozione sono lo specchio del coinvolgimento dei ragazzi verso il nostro allenatore: mi viene subito questo in mente. Significativo era anche il modo in cui alcuni ragazzi che giocavano meno si facevano trovare sempre pronti ed erano quelli che spingeva di più anche in allenamento. Si assumevano le responsabilità di spronare il gruppo in alcune situazioni. Queste cose non sono scontate perché poi ognuno bada molto al suo percorso invece questo è uno degli aspetti a cui tengo molto e fa capire anche come i rapporti, le relazioni, che si stringono siano importantissime. Alcuni mi dicevano anche ‘ma come fa il mister, io non riesco a guardarlo negli occhi’. Passato quel momento tutto diventava forza e si andava avanti tutti insieme. La percezione i quei momenti era di avere tutto per affrontare la sfida sportiva, perché di quello si trattava, ma a volte mi fermo a pensare se tutto è stato fatto nel miglior modo possibile".
C’è tanto Mihajlovic anche nella sua tesi del Corso Uefa Pro: quali sono gli insegnamenti che porta con lei dei 10 anni con Sinisa?
"Sì, c’è molto Sinisa. È così perché volevo rendere ed esprimere quello che avevo dentro al di là delle analisi tecnico-tattiche e delle visioni. Lui ci ha mostrato l’aspetto di non rassegnarsi e di mostrare quello che si è veramente. Con rispetto per gli avversari e per chi vai ad affrontare, ma senza indossare maschere. Esprimendo tutto quello che avevo vissuto, ho rispettato quello che mi ha insegnato in questi anni. Ho citato anche il ‘kintsugi’, l’arte giapponese per cui anche quando qualcosa è rotto nel momento in cui si riparava acquista valore. Mi piace pensare che di fronte alla vita e alle sue vicende anche le ferite ti rendono ancora più prezioso. Lui ci ha dimostrato quello e come lui stesso ha rivelato, in quei momenti ha iniziato ad emozionarsi con più frequenza perché gli uomini si valutano dalla capacità di esprimere fragilità oltre alla forza e dal coraggio. Mi piace pensare che sia rappresentata la sua anima che si è intrecciata con la sua in questi anni".
Qual è l’eredità più grande che Mihajlovic ha lasciato a lei a livello personale?
"Se devo scindere gli insegnamenti tecnici da quelli morali faccio un po’ fatica perché, in realtà, tutto si è un po’ mescolato. Sicuramente di non lasciare nulla di intentato, davanti alle difficoltà e al destino bisogna dare tutto. Se riesci a fare quello non avrai mai perso. Questo credo sia il più importante. In campo, invece, mi ha trasmesso l’idea che non c’erano avversari talmente forti da non poter essere battuti. A volte ci siamo riusciti, altre no, ma tendenzialmente c’era la volontà di affrontare tutte le situazioni con coraggio. Se faccio un attimo mente locale a tutto quello che è accaduto tante gare pensavo che sarebbe stato complesso vincerle mentre in qualche caso è accaduto quello che nessuno pensava. Trasmetteva una voglia e un coraggio di credere in se stessi che spesso ci trasformava nel lavoro che facevamo. Guardare sempre in faccia agli ostacoli con dignità e non tirarsi mai indietro".