Dario Hubner: “A fine carriera ho comprato la macchina che volevo, se esageri coi soldi vai per strada”
Dario Hubner è uno dei pochi calciatori che pur non avendo vestito le maglie delle big della Serie A è rimasto nell'immaginario collettivo di tantissimi tifosi. È l'unico giocatore ad aver segnato dalla Prima Categoria alla Serie A, insieme a Denis Godeas, e lo ha fatto sempre col suo stile. Questo attaccante classe 1967 era dotato di un grande fisico e lo ha sempre sfruttato nelle ‘lotte' con i difensori avversari: dotato di un gran destro, grazie alla sua falcata era quasi inarrestabile se lanciato in ripartenza. Queste caratteristiche gli hanno fatto guadagnare il soprannome di Bisonte, da lui tradotto in Tatanka.
Brescia e Piacenza sono state la consacrazione di un viaggio iniziato nel ‘calcio che conta' con la Pievigina e il Pergocrema, ma Hübner parla del suo arrivo in Serie A a 30 anni in questo modo in esclusiva a Fanpage.it: "Noi giocavamo ed eravamo bravini, sopra di noi c’erano quelli più bravi. Una volta la Serie A era composta da bravi e buoni giocatori. Per me il livello era maggiore. Gli attaccanti di Serie A e B degli anni ’90, come Paci, Protti, Tovalieri, Schwoch… era tutta gente che potrebbe giocare benissimo oggi in Serie A. Una volta non si andava in Serie A perché c’erano i grandi campioni: uno come Montella ha fatto 15 gol per diversi anni di fila in Serie A, ma non ha fatto molte presenze in Nazionale perché c’erano i Vieri, gli Inzaghi, i Totti, i Del Piero. Lo spazio era piccolo. Oggi dobbiamo quasi andare a prendere l’attaccante all’estero. La differenza c’è e dobbiamo capire perché".
Dario Hubner, ai nostri microfoni, fa un lungo viaggio nella sua carriera con diversi salti nell'attualità e svelando qualche aneddoto di vari periodi del suo percorso calcistico tra Brescia, Piacenza e Cesena; raccontando anche i suoi inizi e il suo modo di intendere il gioco del calcio.
Hubner, i ‘bomber di provincia' esistono ancora oppure non esistono più?
“Ma credo di sì, i bomber di provincia ci sono. Quando ti giochi una provinciale e fai gol diventi ‘bomber di provincia’. Logicamente sai benissimo che i tuoi gol non ti faranno vincere lo Scudetto o la Coppa Italia, però ti danno la salvezza in Serie A, che per il giocatore, la società e la squadra è come la Coppa di Campioni”.
Era più facile fare gol prima in Serie A o lo è adesso?
“Ma sai, posso dirti che alla mia epoca c'erano Aldair, Samuel, Stam, Nesta, Costacurta, Montero, Thuram… c'erano questi difensori qui. Oggi in Italia credo che forse qualcuno è a quel livello, ma pochi”.
Com’è iniziata la sua avventura nel calcio professionistico?
"Fino a vent'anni giocavo in Prima Categoria e lavoravo, facevo il fabbro. Ho fatto un paio di tornei e il direttore sportivo del Treviso mi ha visto e mi ha chiamato per fare il ritiro con la squadra che era in C2, ma che quell'anno retrocesse in Interregionale. Io sono passato da fare il fabbro a giocare a calcio. Ho detto ‘Provo un anno e poi vedo'. Mi sono licenziato e sapevo che mi avrebbero ripreso di nuovo a lavorare se non avesse funzionato, perché ero bravo. Ho tentato. Ho provato a fare un anno ma non mi sentivo giocatore, devo essere sincero. In C2 si prendeva appena più di un operaio, per cui guadagnavo quelle 200-300 mila lire in più. Mi piaceva perché giocavo a calcio e mi davano anche i soldi: era il top, però non mi sentivo giocatore".
E quando si è sentito davvero giocatore?
"In Serie B a Cesena e da là ho cominciato a dirmi, a 25 anni, ‘sì posso fare il calciatore da grande'. Dai 20 ai 25, quando giocavo in C, mi sentivo uno che doveva migliorare e che magari da un momento all'altro poteva finire questa favola: uno che a 20 anni gioca in Prima Categoria non pensa mai che a 30 anni debutterà in Serie A e se qualcuno me lo diceva, lo avrei preso per pazzo".
La Serie A a 30 anni. Esordio contro l'Inter a San Siro. Gol.
“Sì, è stato un bellissimo gol. Poi è arrivato il mio amico Recoba, che ho rivisto negli questi anni. Gli ho sempre detto che in cinque anni ha fatto cinque partite con l'Inter e una l'ha fatta contro di me. Se stava in panchina vincevamo 1-0. Invece è voluto entrare e ha fatto due gol, due grandi gol, e mi ha rovinato la giornata. Se stava in panchina era meglio".
Qualche mese fa se n’è andato Carletto Mazzone. Che ricordo ha del mister?
"Io ho fatto solo un anno con Mazzone, con lui parlavo poco perché bastava dire una frase, uno sguardo, e ci capivamo subito il volo. Era una persona squisita, una persona che ti faceva star bene. Sai, quando ti parlava uno come Carletto sapevi che avevi di fronte era uno che aveva fatto tantissime panchine, aveva tantissima esperienza. Se ti diceva buttati nel fosso, ti buttavi nel fosso per lui, perché sapevi che non sbagliavi. Era uno che non si nascondeva, le cose te le diceva in faccia".
Ad esempio?
"Una cosa me la ricordo bene. Era uno dei primi che andava a far colazione al mattino e io, di solito, ero uno dei primi giocatori a svegliarsi. Quando andavi giù dovevi sempre salutarlo appena lo vedevi, anche da 10-20 metri, dovevi gridare ‘Buongiorno Mister'. Se andavi vicino e non salutavi lui ti diceva ‘Oh, che ti devo salutare io per primo?’. Allora quando andavamo in ogni trasferta o in ritiro a Brescia e lo salutavi da lontano lui faceva ‘sì' con la testa per dire che andava bene. Ma se non lo salutavi la mattina si incazzava".
Un altro nome a cui si ricollega la sua esperienza di Brescia è quello di Roberto Baggio. Lei ha detto ‘Baggio mi fece andar via da Brescia': ci può spiegare il senso di questa affermazione?
"Siamo amici, non c’è nessun problema tra noi. Purtroppo io, tatticamente, non andavo bene per lui. Nel senso che io ero un centravanti che giocava in profondità, cercavo gli spazi e andavo in porta. Lui era trequartista e voleva un centravanti che giocasse di sponda: infatti sono andato via io ed è arrivato Toni. Io, quando lui aveva la palla, mi giravo e andavo negli spazi. Non andavamo d’accordo in quel senso là, prettamente tecnico. Guarda, io ho fatto un anno con Roberto: se uno un giorno fa baruffa con Roberto non è a posto lui, perché è impossibile far baruffa con lui".
Che persona è Roby Baggio fuori dal campo?
"Una persona eccezionale, tranquilla, uno a a cui vuoi bene per forza. Quando è venuto da noi, che noi eravamo il Brescia e lui era Roberto Baggio, ci ha messo in tranquillità. Ci ha fatto capire ‘sono come voi, sono tranquillo, non preoccupatevi, cioè, se dovete mandarmi a quel paese, mandatemi, non c'è nessun problema'. È proprio una persona umile, una brava persona".
Dopo Brescia, arriva l’anno di Piacenza con il titolo di capocannoniere.
"A fine anno 2000-2001 il Brescia decide di puntare su un altro centravanti, su Toni, per cui mi libera. Tramite il mio procuratore il direttore sportivo Collovati del Piacenza mi chiama e mi dice: ‘Dario vorresti giocare nel Piacenza? Siamo una squadra neopromossa, siamo un'ottima squadra, ci allena Novellino e a lui piaci molto. Ti vorrebbe qui'. Io ho chiamato un amico che aveva già avuto Novellino, mi ha detto: ‘Dario, vai subito perché Walter ha il gioco ideale per te'. Accettai subito e devo dire che mai scelta fu più azzeccata. Avevo una squadra che giocava per me, avevo dei grandi giocatori perché c'erano Matuzalem, Volpi, Gautieri, Paolo Poggi, Di Francesco… eravamo una bella squadra".
‘Senza grappa e sigarette Hübner sarebbe il più forte di tutti', disse il presidente del Brescia Gino Corioni nell'annata magica 2000/2001.
"È un discorso sempre complesso questo qui. Io la grappa la bevo quando esco fuori a cena, non lo faccio tutti i giorni e non credo che una grappa ti possa rovinare una carriera. Io ho fatto una vita molto professionale perché alle undici, undici e mezza ero sempre a casa. Andavo a dormire, la mattina massimo alle 7 ero sveglio e portavo mia figlia all'ospedale".
E i suoi colleghi?
"Tanti magari andavano in giro per discoteche il giovedì o il venerdì notte. Però rimane più impresso un giocatore che ha una sigaretta in bocca a fine partita che quello bravino, in giacca e cravatta, che al venerdì sera sta fino alle quattro ubriaco in discoteca ma non si fa vedere. Quello non si è fatto vedere, allora è bravissimo ed è un professionista. Uno come me che fuma davanti alle telecamere non è un professionista. Molte volte sono più professionisti quelli che sembrano non professionisti di quelli che si fanno passare per professionisti. Te lo posso assicurare al 100%".
A lei hanno dedicato una canzone?
"Due".
Quella di Calcutta e…
"E Toromeccanica".
Toromeccanica non la conosco, però quella di Calcutta è molto particolare…
"Molto bella, tutte e due, devo essere sincero. Quella di Calcutta non l'avevo capita all'inizio, quando me la mandò. Sarà l’età, purtroppo, non lo so… Allora l'ho mandata ai miei due figli: mia figlia ha 33 anni e mio figlio 25. Sono più giovani e mi hanno detto: ‘Papà, è bellissima'. Allora l'ho ascoltata una seconda volta in maniera tranquilla e me l'hanno spiegata. Veramente bella".
Si parla tanto degli stipendi dei calciatori. C’è una cosa che è riuscito a realizzare con i soldi che ha guadagnato in carriera?
"Io non ho giocato nella Juve, nel Milan, nella Roma. I miei contratti non erano faraonici, ma diciamo che le mie piccole soddisfazioni me le sono prese. Dopo 17-18 anni di professionismo la macchina che mi piaceva me la sono comprata. Non il Ferrari, però all'epoca c'era il Porsche Cayenne. Parliamo di cifre molto minori. Qualcosina logicamente mi sono preso, però non ho mai esagerato, perché se esageravo ero in mezzo a una strada subito. Ho fatto il calciatore a certi livelli, ma non con certi contratti, per cui bisogna anche stare attenti a fare le giuste differenze".
Perché Hubner è rimasto nell’immaginario di tanti tifosi più di altri calciatori?
"Per il fatto che a 20 anni giocavo in Prima Categoria e sono arrivato in Serie A a 30. Un percorso figlio del duro lavoro che, però, è nato migliorando, facendo un gradino una volta: l'Interregionale, la C2, la C1, la Serie B e la Serie A nel giro di sette anni. È anche vero che prima ci volevano anni per passare dalla C alla B. Per andare in Serie A dovevi fare 3-4 anni bene in Serie B per fare il salto. Oggi il calcio è un po' cambiato. In Nazionale giocavi se facevi 200 presenze in Serie A. Non è come adesso che fai sei mesi in Lega Pro, fai bene in Serie B e ti ritrovi subito in Serie A, con la possibilità di essere a Coverciano dopo due buone partite. Dovevi guadagnarti la categoria e io me la sono guadagnata. Uno che oggi gioca a calcio in Eccellenza, in Promozione, magari pensa ‘perché non posso fare anche io quello che ha fatto Hubner?'".
Prima del Brescia stava per andare all'Inter.
"Quando giocavo a Cesena l'Inter mi voleva come terza punta. L'unico problema è che l'Inter voleva dare al Cesena Marco Delvecchio, che all'epoca giocava a Venezia. Lui doveva venire a Cesena e io andavo all'Inter. Si è inserita la Roma nella trattativa per Delvecchio e lui ha scelto di andare in giallorosso. Per cui io sono rimasto a Cesena, lui è andato a Roma e l'Inter ha preso Branca".
In merito al periodo di Cesena c’è un aneddoto su Ambrosini che mi deve confermare: è vero che lo sgridava sempre perché non era capace di calciare in porta di collo ma soltanto di piatto?
"È vero. Massimo è uno dei più bravi colpitori di testa che abbia mai visto. Aveva un tempo, era un fenomeno. Però a calciare in porta era scandaloso, veramente scandaloso. Era un corridore, si vedeva che era un centrocampista che avrebbe fatto carriera perché era veramente bravo, aveva la stessa sulle spalle ed era un ragazzo serio. Lo guardavo come si allenava: era sempre attento, guardava tutto e stava zitto. È migliorato tanto ed è arrivato al Milan perché aveva qualità".
Ci sono stati mai dei momenti difficili per lei in carriera?
"No, io non ho mai sofferto di tensione, forse appena appena lo spareggio che ho perso con il Cesena. Però, anche là, cercavo sempre di entrare in campo e dare il 100%. Il mio obiettivo era andare in campo, dare il 100% e arrivare al 95’ sapendo di aver dato tutto. Poi potevo vincere o perdere, potevo fare due gol o sbagliare due gol. Però al 90’ dovevo dire a me stesso ‘oggi hai dato tutto ma non era giornata, non hai fatto gol’ oppure ‘hai giocato benissimo’. L’importante era essere stanchi. Uno non può giocare bene 28 giornate. Ci sta la domenica che senza volere fai due gol e la domenica che ti metti là e su tre occasioni non ne fai uno. È così".
Dario Hubner ha ottenuto più o meno di quanto meritava?
"Ma guarda…per i gol che ho fatto magari ho ottenuto di meno di quello che meritavo. Però, se guardo indietro e mi immagino a 20 anni, dico che sono stato fortunato".