Da bambino a nonno, tutte le facce di Zio Bergomi che non dimenticheremo mai
Di Giuseppe Bergomi, detto Beppe, ma detto anche Zio, abbiamo almeno quattro immagini ben piantate nel nostro immaginario collettivo.
La prima è di Bergomi diciottenne che nella finale mondiale di Spagna 1982 marca uno dei migliori attaccanti al mondo, Karl-Heinz Rummenigge, annullandolo e vincendo la Coppa del Mondo. È l’immagine strana di un ragazzo fuori dal tempo. Del quasi bambino ha pochissimo, due baffoni enormi da polacco in vacanza dominano una faccia che sembra già segnata. Le sopracciglia coprono quasi del tutto lo sguardo, i capelli arruffati danno l’idea di un adolescente ribelle. Il primo Bergomi è un’apparizione concreta, un essere difficile da identificare, non poteva fare né la parte dell’amico né quella del padre, un senza tempo calato in campo dall’immaginazione contadina di Bearzot, sempre geniale nel capire quando è il momento per togliere il ciuccio di colpo al prossimo campione (come con Cabrini nel 19787).
La seconda immagine è del Bergomi adulto, quello dello scudetto dei record con l’Inter nella stagione 1988-89. Veniva dalle battaglie con il Real Madrid a inizio anni ’80 e il suo sguardo era già da vecchio marinaio, non più da giovanissimo mozzo. Le sopracciglia, decantate, citate e cantate da Elio e le Storie tese, erano ancora il suo marchio, ma su una fronte più ampia, senza che con i capelli ben ordinati facessero un tutt’uno. Il Bergomi di quegli anni non era più un bambino capace, ma un mastino che chiedeva ai compagni lo stesso suo impegno e agli avversari di stare buoni, altrimenti avrebbero sentito su di loro le sue scarpe.
Questo è il Bergomi che più hanno amato i tifosi interisti perché in opposizione alla wave rossonero-sacchiana, che aveva Baresi con il suo stesso stigma, ma anche una nuova idea di difesa della propria porta. Era il Bergomi oppositivo, ma anche malinconico dopo che, da capitano dell’Italia ai Mondiali ’90, non riuscì nel suo sogno di alzare la Coppa nel cielo di Roma.
Il terzo Bergomi è quello dei Mondiali di Francia 1998. Il calcio era corso avanti veloce, ma Simoni a Milano, anche grazie a Bergomi, aveva creato un’oasi di passato dove tanti stavano divinamente bene. Lo Zio si era messo al centro della difesa, un passo dietro ai marcatori Colonnese e Taribo West e semplicemente ordinava movimenti. Quella stagione per lui fu meravigliosa perché per la prima volta poteva guardare la squadra nella sua interezza e non stare attento al suo piccolo ma sempre fondamentale compito specifico in marcatura. Da Simoni quell’estate passò a Cesare Maldini e dopo l’infortunio di Nesta contro l’Austria giocò titolare sia contro la Norvegia che contro la Francia. Quella sarà l’ultima partita in cui è stato schierato il libero per la Nazionale e il movimento calcistico che meglio lo ha saputo utilizzare nella sua storia.
Quell’esperienza da ordinatore della squadra gli sarà subito utile per la quarta immagine che abbiamo di lui, ovvero quella di commentatore tecnico delle partite per Sky. Quanto era focoso e drastico in campo, all’opposto appare davanti ai microfoni, sempre composto e razionale, sembra quasi sentirlo contare fino a dieci prima di dire la sua. Insieme a Fabio Caressa ci ha accompagnato in un’altra estate mondiale, quella vincente del 2006 e fa venire quel sorriso di gusto ascoltare i suoi contrappunti sempre leggeri mentre Caressa alzava i toni fino alle stelle. E con il partner di telecronache ha avuto modo di commentare poi anche le imprese dell'Italia di Mancini, campione d'Europa a Wembley.
Quattro immagini e anche un bel po’ di ringraziamenti per un calciatore che ha fatto dell’essere professionista il suo mantra e per il telecronista, che fa ancora oggi della serenità una dote da diffondere. La frase che lo dipinge è quella di Cesare Maldini, suo ultimo allenatore in Nazionale.
“Se nell'82 mi sembrava normale che un giovane si allenasse con tanto impegno, mi ha stupito nel '98 ritrovarlo tale e quale: palestra, corsa, lavoro e poi ancora lavoro, sempre in silenzio. Lì ho capito davvero di che pasta era fatto”.
Anche oggi alcuni silenzi di Bergomi sono da capire, dicono davvero tanto.