Costruire sul dolore per portare Diego Armando Maradona nel futuro
Diego Armando Maradona è morto una settimana fa e l’intero globo ha trattenuto il respiro per un secondo, abbiamo tutti abbassato la testa e ricordato la bellezza. Sembra una cosa normale o almeno possibile per un personaggio che ha una forte presenza nell’immaginario collettivo, ma per un calciatore forse nessuno se lo aspettava. A una settimana esatta dalla morte di Diego, la forza atomica dell’AD10S è ora calcolabile. Dall’Argentina al Giappone, dalla Siria all’Italia, dall’Africa alla Nuova Zelanda, tutti hanno voluto tirare fuori il ricordo e ancora meglio il loro ricordo, perché chi è riuscito ad essere così planetario è perché ha costruito, ovviamente in maniera inconsapevole, un momento di contatto speciale, intimo anche se a distanza, unico anche se per tutti e per questo incredibilmente resistente.
I tributi si sono succeduti senza sosta, una sorta di giro del mondo e dei fusi orari per chi meglio sapeva esprimere l’amore per Maradona. Gli All Blacks hanno pensato al tributo più inaspettato. Una loro maglia, la maglia che tutti loro anelano dal momento in cui toccano un pallone da rugby con il numero 10 e il nome di Maradona viene donata agli argentini un attimo prima di partire con la haka, l’espressione massima anche della loro tradizione. Un momento davvero unico e inaspettato.
Altra meravigliosa testimonianza di affetto è stata quella di Messi che ha intrecciato, in un gesto dalla potenza iconica sensazionale, amori (per il suo Maradona, che lo ha anche allenato in Sud Africa nel 2010, per la squadra del suo cuore, il Newell's Old Boys, in cui Maradona ha giocato nel 1993) e un filo rosso che lo ha segnato per tutta la sua carriera, sfilandosi la maglia del Barcellona e mostrando quella con cui il piccolo Messi ha visto dal vivo Maradona al “Colosso” in amichevole contro gli ecuadoriani dell’Emelec.
Poi ci sono stati i social media, letteralmente scoppiati di immagini, parole, dediche, lacrime e immagini di calcio, forse del più bel calcio che abbiamo visto fino ad oggi ma che di sicuro adesso sarà sempre più comparabile a una forma d’arte. In realtà molto interessanti anche le poche voci in contrasto rispetto all’amore generale, perché all’istante subissate dall’affetto di chi, come ha detto Roberto Fontanarrosa, non giudica Maradona per quello che fatto alla sua vita, ma per quello che ha fatto alle loro vite.
E infine Napoli e Buenos Aires, i due epicentri del dolore e della memoria più pura. In Argentina il dolore è stato folle, profondo, quasi ingestibile ad un certo punto. Avere Maradona lì era una calamita troppo forte, si voleva l’ultimo contatto terreno con chi ha instillato in loro alcune delle gioie più grandi della vita.
A Napoli invece Maradona non c’era e non ci sarà mai più. E questo ha portato a un dolore forse anche più acuto, silenzioso, cupo. Quante volte Maradona è andato via da Napoli? Decine di volte. Eppure è sempre ritornato, in quel legame che non si può che marchiare con la parola amore. Oggi i napoletani sanno che non tornerà mai più e per questo lo hanno pianto con una tristezza più irrefrenabile. Non è stato il dolore infuocato e aggressivo degli argentini, ma una serie di fitte acute, che riempivano gli occhi di lacrime, da scaricare dove nessuno ti poteva vedere perché magari avevi “scuorno” di piangere per un calciatore.
Per fortuna a Napoli si sa quanto il ricordo sia un’arte da coltivare e, mentre è ancora nella testa il pensiero al passato, già si deve immaginare il futuro, in cui Maradona in qualche modo viva ancora nella città. È questo il miglior modo per dimostrare ancora una volta l’amore per Diego e poi per non farlo dimenticare a chi inizierà a sentirne parlare sempre meno, a vederne sempre meno immagini, ad avere altri grandi miti calcistici e non solo. Si deve costruire oggi sul dolore per portare Maradona nel futuro.