Cos’è una plusvalenza nel calcio e perché se ne sta di nuovo abusando
Negli ultimi anni la corsa alle plusvalenze è tornata in voga nel calcio italiano e internazionale. Non un caso inedito, specialmente in Italia, dove nei primi anni 2000 scoppiò una vera e propria bolla speculativa fatta di valutazioni fuori mercato per giocatori spesso sconosciuti, scambiati in sede di campagna acquisti per incrementare (sulla carta) i proventi sulle cessioni dei calciatori. Ma concretamente, cos'è una plusvalenza?
Cos'è una plusvalenza nel calcio
Pescando direttamente dall'Enciclopedia Treccani, si tratta di un "incremento di valore" o una "differenza positiva fra due valori dello stesso bene riferiti a momenti diversi". Un'altra definizione è quella di "componente positivo straordinario del reddito d'impresa derivante dall'alienazione a titolo oneroso di un bene strumentale", come riportato sul Manuale di Diritto Commerciale edito da Simone. In un linguaggio meno ostico, è il guadagno (il plus, appunto) che si ottiene dalla cessione di un bene rispetto al suo valore residuo. Per spiegare bene quest'ultimo concetto, bisogna introdurne un altro: quello di ammortamento. Perché un bene ha un valore di inizio periodo, pari al costo con il quale si è ottenuto, e un valore di fine periodo, influenzato appunto dall'ammortamento, che non è altro che la ripartizione di tale valore nel corso di più anni, in base alla ragione economica. Nel caso dei calciatori, la durata è stabilita dai contratti: se una società compra un giocatore per 10 milioni di euro e sigla un accordo quinquennale, l'ammortamento annuo è di 2 milioni. Di conseguenza, se il valore di inizio periodo è 10 milioni, per effetto dell'ammortamento tale valore si riduce di 2 milioni ogni anno, generando così un valore residuo.
Come si calcola una plusvalenza
La plusvalenza, dunque, non è una mera sottrazione tra costo di vendita e quello d'acquisto, bensì la differenza tra il valore stabilito al momento della cessione di un bene e il valore dello stesso "influenzato" dall'ammortamento annuo (se il risultato è negativo, si parla invece di minusvalenza). Un esempio può essere quello del difensore Angelo Ogbonna, acquistato dalla Juventus per 13,325 milioni di euro e ceduto al West Ham per 11 milioni. La differenza tra le due valutazioni è negativa, ma l'operazione ha generato in realtà una plusvalenza di circa 2,3 milioni, perché dopo due stagioni in maglia bianconera, il valore residuo di Ogbonna si è attestato a 8,698 milioni al momento del suo trasferimento (plusvalenza poi ridotta a 1,4 milioni, attualizzando il valore di cessione a 10,655 milioni e prendendo in considerazione i 533 milioni di contributo di solidarietà).
Perché nel calcio si fa uso delle plusvalenze?
Operazioni del genere, nel mondo del calcio, non solo non sono una rarità, ma per molti club sono una necessità. Basti pensare alle società che investono sui settori giovanili e rivendono i calciatori cresciuti nei loro vivai: si tratta di giocatori che a bilancio hanno un valore praticamente pari a zero, non avendo sostenuto costi per il loro acquisto (o avendoli ammortizzati nel periodo di permanenza nel settore giovanile), la cui vendita garantisce dunque una plusvalenza piena. Operazioni del tutto lecite, che hanno permesso a tante società di monetizzare sullo sviluppo dei propri calciatori. Non manca però una faccia meno limpida di questa medaglia, quella che ha portato all'abuso di tale strumento, generando valutazioni gonfiate di proposito per abbellire i bilanci, facendo risultare cessioni multimilionarie (con relative plusvalenze) senza alcun reale beneficio nelle casse societarie. Vengono definite plusvalenze fittizie, perché l'effetto positivo generato dalla cessione di un calciatore, in realtà, non esiste: solitamente viene bilanciato con un acquisto di pari valore, che a differenza della cessione non pesa immediatamente sui conti della società. Se un giocatore viene venduto a 10 milioni, quella cifra viene registrata per intero nel bilancio. Se un giocatore viene acquistato a 10 milioni, tale valore viene spalmato su più anni.
Plusvalenze fittizie e fair play finanziario
È quanto accaduto tra la fine degli anni '90 e gli inizi degli anni 2000 con le cosiddette "sette sorelle", ovvero Juventus, Inter, Milan, Roma, Lazio, Fiorentina e Parma che in un triennio hanno iscritto nei propri bilanci plusvalenze per un totale di 750 milioni di euro (attualizzando al cambio), oltre il 60% di quelle dell'intera Serie A nel periodo preso in esame. Alcune di queste società finiscono sotto processo per il cosiddetto "doping amministrativo", locuzione resa celebre dall'allora presidente del Bologna, Giuseppe Gazzoni Frascara. Milan e Inter vengono prosciolte dal gup Di Lorenzo nel gennaio 2008 perché il fatto non costituisce reato, d'altronde il reato di falso in bilancio era stato depenalizzato sei anni prima dal Governo Berlusconi, mentre in sede di giustizia sportiva concordano un'ammenda da 90 mila euro a testa per una serie di scambi che coinvolgono giocatori noti (Pirlo per Guglielminpietro, Coco per Seedorf) e sconosciuti (Brunelli, Deinite, Giordano, Toma, Ferraro, Livi, Ticli, Varaldi). Finiscono in tribunale anche Roma e Lazio, ma anche in questo caso, la bolla speculativa si trasforma in una bolla di sapone: Cragnotti e il club biancoceleste vengono assolti per il presunto falso in bilancio sull'operazione Veron, Sensi e i giallorossi per l'affare Nakata. Alla Roma viene solo inflitta una multa per la cessione di alcuni Primavera, sanzione sospesa successivamente dalla Corte di Cassazione.
Storie del passato, ma il presente è tutt'altro che florido e stavolta non sono coinvolte solo le "big". Anche i piccoli club, di recente, sono entrati nel vortice delle plusvalenze. È il caso di Chievo e Cesena, con i primi penalizzati di tre punti nel 2018 dalla giustizia sportiva e i secondi dichiarati falliti l'11 agosto dello stesso anno, con debiti per 85 milioni di euro. Alle due società sono state contestate delle variazioni di tesseramento di alcuni calciatori ritenute illecite, contabilizzando plusvalenze fittizie "finalizzate a far apparire un patrimonio netto superiore a quello esistente". Operazioni svolte con calciatori pressoché sconosciuti: Tosi valutato 4,5 miloni, Borgogna 4 miloni, Placidi 3,5 milioni, Folletto 2,2 milioni, Concato, Gkaras e Zambelli 2 milioni, Lordswill 1,8 milioni, Mahmuti un milione. A seguito di quest'inchiesta, la Guardia di Finanza ha disposto un sequestro preventivo di beni per 3,7 milioni di euro nei confronti del Chievo e del patron Campedelli, oltre che di 5,3 milioni nei confronti del già fallito Cesena e dell'allora presidente Lugaresi, nei cui conti però non sarebbero state trovate cifre significative. Senza tale sistema, né Chievo né Cesena avrebbero potuto "ottenere la Licenza Nazionale e l'iscrizione al campionato delle stagioni 2015/16, 2016/17 e 2017/18".
Perché si abusa delle plusvalenze in Italia e in Europa
Il "caso Chievo", però, non ha frenato la scalata alle plusvalenze. Stando all'ultima edizione del ReportCalcio pubblicato dalla Figc, nella stagione 2017/18 l'intero settore professionistico ha generato plusvalenze per 777 milioni di euro, in aumento rispetto al boom dell'anno prima, quando si passò da 437 a 749 milioni di euro. Quel che preoccupa, però, è la voce relativa agli ammortamenti, esattamente pari alle plusvalenze, ovvero 777 milioni. Anche in questo caso, la cifra è in continua ascesa e testimonia una situazione complicata nei conti dei club calcistici italiani, accentuata da debiti pari a quasi 3,9 miliardi di euro nel giugno 2018. Una fotografia di un calcio indebitato e che non riesce a generare un plusvalore effettivo, dato che va a compensarsi interamente con gli ammortamenti. Eppure, la bolla si allarga, in Italia e in tutta Europa, perché paradossalmente è la Uefa a "chiederlo". I parametri del fair play finanziario, strumento introdotto dal massimo organo calcistico europeo nel 2009 per guidare i club verso il pareggio di bilancio, considerano le plusvalenze tra i cosiddetti "ricavi rilevanti", la cui differenza con i "costi rilevanti" dà il risultato di bilancio. Chi si trova in crisi di liquidità e non riesce a trovare fonti alternative di ricavo, così, non può far altro che ricorrere alle plusvalenze. Non sempre in maniera limpida.