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Cos’è il PIF, il fondo accostato all’Inter che avvicina la Serie A alle ombre dell’Arabia Saudita

Le voci su un possibile investimento del Public Investment Fund saudita (PIF) nell’Inter avvicinano ulteriormente la Serie A a Riyad. Dopo l’organizzazione della Supercoppa Italiana e l’ipotesi di una candidatura congiunta per ospitare il Mondiale del 2030, il calcio italiano è pronto ad accodarsi alla Premier League, che ha approvato la cessione del Newcastle ai sauditi.
A cura di Benedetto Giardina
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Il Newcastle, per cominciare. Poi si guarderà al resto dell'Europa e l'Italia ha una corsia preferenziale. Il Public Investment Fund saudita (PIF) ha aperto una breccia nel calcio del vecchio continente e, una volta ottenuto il via libera dalla Premier League, sta valutando altri possibili investimenti in giro per le top five leagues. Il nome del fondo sovrano arabo è stato accostato all'Inter, per quanto al momento si tratti solo di voci senza riscontri. D'altronde, l'acquisizione del Newcastle è stata completata giusto pochi giorni fa e ipotizzare un secondo investimento di tale portata appare complicato. Ma perché il fondo della famiglia reale saudita sta cercando di farsi spazio nel mondo del calcio? E perché ha dovuto fronteggiare parecchi ostacoli prima di trovare il semaforo verde dalla Premier League?

Cos’è e cosa gestisce il Public Investment Fund: patrimonio e interessi

Innanzitutto, il PIF è un fondo sovrano, ovvero un fondo d'investimento pubblico di proprietà del governo del proprio paese. In questo caso, dell'Arabia Saudita, con sede a Riyad e con diverse versioni sul valore degli asset gestiti. Secondo il Sovereign Wealth Fund Institute, si aggirerebbe sui 370 miliardi di euro (430 miliardi di dollari). A marzo quando, è stata lanciata la seconda fase del programma Saudi Vision 2030, stando a a quanto riportato sul sito dell'US-Saudi Business Council, «il PIF ha triplicato i propri asset gestiti a quasi 400 miliardi di dollari», ovvero 346 miliardi di euro. Secondo la Reuters, nel 2020 ha raggiunto i 350 miliardi di euro (1500 miliardi di riyal) e nel 2025 punta a superare i 900 miliardi di euro (4000 miliardi di riyal), citando le dichiarazioni del presidente del fondo, il principe ereditario Mohammed bin Salman Al Saud.

Per gran parte della propria storia, a partire dalla fondazione nel 1971, il PIF si è occupato di gestire società nazionali senza avere una particolare influenza sull'economia del Regno. È nell'ultimo decennio che, sulla scia degli altri fondi sovrani del Medio Oriente, si è assistito ad un allargamento del proprio portfolio di investimenti. Nel 2015 ha rilevato il 38% del colosso sudcoreano Posco Engineering & Construction e nel 2016 le quote di Aramco (la compagnia petrolifera saudita, nonché la prima al mondo per emissioni di carbonio) sono state trasferite nel fondo sovrano. Nello stesso anno, ha acquisito una quota di minoranza di Uber per circa 3,5 miliardi di dollari e si è unito a SoftBank per un investimento da 45 miliardi in tre anni su un fondo congiunto. Il PIF conta inoltre altri investimenti negli Stati Uniti in vari campi, dai resort di lusso fino ai social media.

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Perché gli investimenti sauditi stanno suscitando polemiche

Il presidente del PIF, come già detto, è il principe Mohammed bin Salman Al Saud. Il suo nome è balzato agli onori delle cronache per l'omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi, tra i principali critici del regime di Riyad. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, «le autorità saudite hanno permesso, se non diretto» l’esecuzione del reporter e «gli ufficiali sauditi hanno proceduto a prendere misure apparentemente studiate per distruggere le prove, negando contemporaneamente la morte di Khashoggi, fin quando il governo non è stato costretto a riconoscere l'omicidio». Stessa conclusione a cui è giunta l'intelligence statunitense, secondo cui Mohammed bin Salman ha «autorizzato» l'operazione che ha portato all'uccisione di Khashoggi. Per questo, ma anche per altre violazioni dei diritti umani da parte dei regnanti dell'Arabia Saudita, Amnesty International sta portando avanti un pressing incessante nei confronti della Premier League, chiedendo di riscrivere il codice dell'«Owners' and Directors' Test», ovvero i requisiti di onorabilità richiesti a dirigenti e proprietari dei club inglesi.

La questione etica, chiaramente, gioca un ruolo fondamentale nell'accogliere gli investimenti sauditi. Non a caso, la Premier League ha atteso più di un anno prima di dare il via libera alla cessione del Newcastle, giunta – a loro dire – solo dopo aver «ricevuto rassicurazioni legalmente vincolanti che il Regno dell'Arabia Saudita non controllerà» il club bianconero. Il PIF, infatti, è formalmente un componente di un consorzio, che vede al proprio interno anche PCP Capital Partners and RB Sports & Media. Ma per il calcio inglese, l'ingresso della famiglia reale saudita non è certo una novità, dato che lo Sheffield United (ora in Championship) è di proprietà di un altro Al Saud, il principe Abd Allah bin Musaid, che però non rientra tra gli aspiranti al trono. Mohammed bin Salman, il presidente del PIF, è invece il primo in linea di successione, nonché ministro della difesa del Regno, dunque decisamente più coinvolto negli affari di stato. Nel bene e nel male.

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Dopo il Newcastle, i sauditi guardano all’Italia

Dopo gli iniziali tentennamenti, la Premier League ha dato il via libera, squarciando il velo sull'ipocrisia del calcio inglese in merito ai giudizi di onorabilità. Basti pensare a quanto accaduto nel 2014, quando il pacchetto di maggioranza del Leeds (allora in Championship) venne rilevato da Massimo Cellino: la Football League prima pose il veto sulla cessione per una condanna in primo grado per evasione fiscale, poi lo ha inibito da ogni carica. Ha assunto toni farseschi, invece, il caso di Louis Tomlinson, cantante degli One Direction, sempre nel 2014 cercò di acquisire le quote del Doncaster Rovers. Peccato che gli mancassero i fondi necessari per il club, motivo per cui non superò il cosiddetto «fit-and-proper test». Ecco, problemi economici, i sauditi, non dovrebbero affatto averne. Ma i criteri, come visto per Cellino, non riguardano solo la condizione economica. E nello specificare di aver ottenuto «rassicurazioni legalmente vincolanti» sull'esclusione dei regnanti dal controllo del Newcastle, la Premier League ha allargato uno spiraglio aperto già da qualche anno.

La Serie A, nei rapporti tra il calcio europeo e l’Arabia Saudita, ha un ruolo di primo piano. A partire dal gennaio 2019, ovvero da quando la Supercoppa Italia si è disputata per la prima volta a Riyad, non senza polemiche. Una trasferta frutto dell’accordo tra la Lega Serie A e la General Sports Authority, per disputare in territorio saudita tre edizioni del torneo nei successivi cinque anni. Per Gaetano Miccichè, allora presidente di lega, l’Arabia Saudita è «il maggior partner commerciale italiano nell’area mediorientale», ma calcisticamente potrebbe essere qualcosa di più. Lo dimostra l’ipotesi di una candidatura congiunta per organizzare il Mondiale del 2030 (mai prima d’ora disputato in due paesi di due continenti diversi) e lo dimostra la conferma della sede saudita per la Supercoppa Italia 2021, che vedrà di fronte la Juventus e l'Inter. Proprio l'Inter, campione d'Italia, che in Arabia Saudita potrebbe trovare gli investimenti per il futuro.

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