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Conte o Guardiola: non esiste un solo modo di giocare a calcio per vincere

Davvero pensiamo che esista un solo modo di giocare per vincere partite e trofei nel calcio? Una discussione sterile, a tratti inutile, ma che fa capire a che punto è il dibattito nel nostro paese. Il gioco più praticato del mondo per alcuni è una scienza esatta e basta ricalcare ciò che è stato già visto per arrivare all’obiettivo mentre per altri non c’è modo di sfuggire alle nuove proposte calcistiche. Angel Cappa una volta disse che “il futuro del calcio è nel passato” e forse è proprio lì il compromesso che non si vuole accettare.
A cura di Vito Lamorte
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C’è davvero qualcuno che non si è divertito a guardare Bayern Monaco-PSG? La speranza è che la risposta sia negativa da parte di tutti gli spettatori italiani, ma fin dai minuti successivi al triplice fischio della gara dell’Allianz è ritornato in auge lo stucchevole dibattito sull'interpretazione di alcune squadre, con tutti i pro e i contro annessi. Il modo in cui si porta in campo la fase difensiva e il gioco orientato all'attacco entrano a far parte di un dibattito ‘a convenienza’, un po' come i punti del supermercato, che sta diventando davvero surreale. Si può prendere una gara come quella di Monaco e paragonare le due fasi difensive con quella dell'Inter di Antonio Conte? Il passaggio non è così lineare per tantissimi motivi ma visto che c'è sempre chi è pronto a mettere tutto nello stesso calderone, allora conviene partire da una domanda semplice per capire dov'è il problema: esiste un solo modo di giocare a calcio per poter vincere? La risposta è, immaginiamo per tutti, no. Ci sono differenze di proposta e di applicazione ma non esiste un unico modo di giocare al calcio e di vincere partite e poi trofei.

Se dovessimo prendere in esame gli ultimi 10/15 anni di calcio europeo e mondiale potremmo renderci conto come questa lettura del calcio come un ‘binario unico' da percorrere sia piuttosto assurdo e un po’ superficiale. Il Barcellona, ad esempio, è riuscito ad alzare per tre volte la Champions League, le prime due volte con Guardiola al comando (2009 e 2011) e poi con Luis Enrique (2015) ma già nei primi due casi il modo di approccio e di pensiero era differente, nonostante lo stesso tecnico. Ancora diverso lo è stato con l’ex tecnico della Roma. In mezzo alle vittorie dei blaugrana ci sono state quelle dell’Inter di José Mourinho e del Chelsea di Roberto Di Matteo, che a loro volta hanno portato sul campo altre idee e altre interpretazioni. Successivamente sono arrivati il Real Madrid, con la sua fantastica tripletta; il Liverpool e ancora il Bayern Monaco dopo il 2012: Zidane, Klopp e Flick non hanno la stessa idea di calcio ma sono riusciti a portare a casa l’obiettivo ugualmente percorrendo sentieri molto diversi.

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Se volessimo spingerci oltre Oceano, approdando in America Latina, questo dibattito diventerebbe ancora più interessante: nonostante l’albo d’oro per la Copa Libertadores sia ancora più variegato si può notare come la miglior squadra del continente dell'ultimo decennio, ovvero il River Plate di Marcelo Gallardo, abbia portato a casa una infinità di trofei ma venga apprezzata soprattutto per uno stile talmente riconoscibile che in occasione dell'eliminazione dei Millonarios nella semifinale della Copa Libertardores da parte del Palmeiras il tecnico portoghese dei brasiliani, Abel Ferreira, ha detto al suo rivale argentino: "Tu sei un tecnico migliore di me” e gli ha dedicato la vittoria dopo la finale. Probabilmente per alcuni sarà solo un aneddoto buttato lì, per caso, ma vedendo il livello del dibattito probabilmente non lo è.

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Senza tornare ogni volta a parlare dell’Olanda degli anni ’70, che perse due finali di Coppa del Mondo ma segnò la storia del calcio per tanti motivi; potremmo ricordare l’Arsenal di Arsene Wenger dei primi anni 2000: una squadra straordinaria, ricordata come “The Invincibles”; che non riuscì mai a consacrarsi a livello europeo per un motivo o per un altro ma il cui nome è impresso a caratteri cubitali nei libri di futbol. Se volessimo estremizzare ancora di più il concetto potremmo prendere in esame i casi del Napoli di Maurizio Sarri e dell’Huracan di Angel Cappa: entrambe le squadre non hanno trionfato nei rispettivi tornei locali per dettagli, particolari, ma su di loro si sprecano le discussioni e le argomentazioni sui triangoli del 4-3-3 partenopeo o sul possesso palla e la verticalità di Pastore & co. Il tutto condito con gli occhi che brillano per la riconoscenza verso quanto visto in quegli anni.

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Il gioco più praticato del mondo per alcuni è una ‘scienza esatta' e basterebbe ricalcare ciò che è stato già messo in atto per ottenere risultati voluti mentre per altri non c’è modo di sfuggire alle nuove proposte calcistiche, o così o niente. Un innovatore come Angel Cappa, ex allenatore e grande conoscitore di calcio, in un’intervista del 2009 disse che "il futuro del calcio è nel passato. Giocatori di altre epoche lo dicono quando ci vedono giocare: ‘Giocano come noi!'". Ed è proprio lì il compromesso che in molti casi non si vuole accettare.

Esattamente come la triste discussione sulla tanto osteggiata e additata “costruzione dal basso”, che è sempre esistita; anche quella sul giocare a calcio in un certo modo piuttosto che in un altro si sta rivelando per quello che è: un bluff. Questa diatriba tra chi è definito “giochista” e chi “risultatista” sta diventando una specie di battaglia campale nel piccolo mondo antico italiano con addetti ai lavori che si dilettano a colpi di tweet, editoriali e opinioni in tv mentre nel resto del mondo si lavora per ampliare gli orizzonti e le vedute ‘del calcio' e ‘sul calcio'.

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