Comportamento inspiegabile di Guardiola prima di Real-City, tutti vedono: “Sta così da mezz’ora”
La notte più lunga e buia di Pep Guardiola era iniziata molto prima che Rodrygo (doppietta) e Benzema mandassero in frantumi il sogno di una finale tutta inglese con il Liverpool. Pensieroso, sotto pressione, schiacciato dalla tensione emotiva, il tecnico del Manchester City appariva inquieto. Aveva lo sguardo perso nel vuoto, gli occhi fissi dinanzi a sé come se avesse già visto cosa sarebbe accaduto un'ora e mezza più tardi.
Nemmeno la proverbiale organizzazione tattica, quel mondo costruito con precisione metodica di movimenti, gli è bastata per sventare la più crudele delle eliminazioni. Era a un tanto così dal passaggio del turno, a un metro dal gol che Jack Grealish aveva (quasi) fatto ma i riflessi e la deviazione di Ferland Mendy sulla linea, la traiettoria beffarda che sfiora le gambe di Foden, che è lì davanti e vede svicolare la palla come mossa da una forza oscura, sono sembrati un maleficio. In pochi minuti è crollato tutto. Ha sfiorato la grandezza ancora una volta, il tonfo è stato fragoroso.
Il tecnico catalano ha visto dissolvere antiche certezze, la consapevolezza di aver fatto tutto il possibile per spezzare quell'incantesimo che lo tormenta da oltre dieci anni, da quando ha vinto per l'ultima volta la Champions con il Barcellona, nonostante il miliardo di sterline che lo sceicco ha investito per vincere anche in Europa. È stato allora che il brusio dei suoi demoni è divenuto martellante. Non è mai riuscito a liberarsene. Ha provato a scacciarlo, mettergli la sordina, stordirlo con la spettacolarità del suo gioco e l'elogio del suo genio calcistico, ne è rimasto sopraffatto.
Il trauma è stato fortissimo: "Ora abbiamo bisogno di elaborare questa situazione, tornare a casa dalla nostra gente", le parole che ha mormorato in tv sforzandosi di trovare quelle giuste. Non ce n'era bisogno, l'espressione che aveva stampata sul viso nell'immediata vigilia del match spiegava bene lo stato di disagio emotivo che stava vivendo. Mai Guardiola aveva dato quell'immagine di sé, invece la fine del (suo) giorno era tutta là: accomodato sulla panchina del Bernabeu con le gambe incrociate, le dita che tormentano le labbra, gli occhi rivolti verso terra e un gran rumore di pensieri in testa.
Astratto da tutto, perso e isolato nelle sensazioni peggiori che gli hanno messo in subbuglio l'animo. Impressionato da Carlo Ancelotti al punto da patirne la "forza tranquilla", la capacità di gestire e governare anche l'imponderabile con due ventenni (Camavinga e Rodrygo): come l'acqua, prende la forma che le viene data. Lui no, è abituato ad avere tutto sotto controllo ma se le cose prendono una piega diversa, la variabile dell'imprevedibilità (il salvataggio di Mendy o l'ingresso fatale di Rodrygo) può mandare in crisi il suo sistema e il genio a pezzi. È successo all'andata, s'è ripetuto al ritorno.
E quando la gara è arrivata ai supplementari, Guardiola è scoppiato. Da un lato c'era l'allenatore del Real, che si limitava a dare poche indicazioni rassicuranti ai calciatori, smorzando la pressione di quei momenti dialogando con i suoi giocatori su eventuali contromosse da escogitare. Dall'altro c'era Pep con lo sguardo spiritato, maniacale negli ordini che ancora impartiva, ossessivo nella mimica. Tutto solo nella notte più lunga e profonda della carriera.