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Claudio Gavillucci a Fanpage.it: “Arbitri condizionati e poco sereni. Chi usa il VAR ha un voto negativo”

Claudio Gavillucci, ex arbitro di Serie A dismesso dall’AIA al termine della stagione 2017/18, ha raccontato la sua tribolata storia in un libro: ‘L’uomo nero’. Ai microfoni di Fanpage.it, è sceso nel dettaglio delle dinamiche interne che regolano ancora oggi il mondo arbitrale in Italia: “Un sistema che in modo indiretto può condizionare gli arbitri. Utilizzare il VAR per correggere un errore sancisce una valutazione negativa”.
A cura di Sergio Chesi
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"Gli arbitri non possono parlare". Claudio Gavillucci, invece, può farlo. Perché dal 30 giugno 2018 non è più un arbitro di Serie A. Dismesso, a sorpresa, dall'Associazione Italiana Arbitri in virtù dell'ultimo posto nella graduatoria stagionale, secondo le valutazioni di osservatori e organo tecnico. Il capolinea della sua carriera ad alti livelli è così diventato l'inizio della sua battaglia. Personale, in primis. Ma anche di principio. Spinto dalla delusione per la fine di un sogno, Gavillucci ha deciso di accendere i riflettori sul complesso sistema che regola l'AIA al suo interno e condiziona la vita professionale degli arbitri. Dalla singola partita all'intera carriera. Dinamiche raccontate nel dettaglio, con prove e documenti a supporto, ne ‘L'uomo nero' (edito da Chiarelettere). Un libro che parla di arbitri ma "scritto per gli arbitri", come ha raccontato a Fanpage.it lo stesso Gavillucci.

Gavillucci, chi è l’uomo nero?
"Nell'immaginario collettivo è sempre stato un personaggio malvagio, che incuteva timore. Nel calcio l'uomo nero per decenni è stato identificato nell'arbitro. Per la divisa nera e perché era il nemico, il cattivo, colui che decretava il calcio di rigore e imponeva la sconfitta alla squadra del cuore. Ho scelto questo titolo perché il mio libro vuole aprire la conoscenza sulla figura dell'arbitro".

Nella sua storia ha avuto un ruolo centrale quel Sampdoria-Napoli del 2018. Facciamo chiarezza una volta per tutte su cosa è successo?
"È successo che al 30′ del secondo tempo ho interrotto per cori discriminatori di tipo territoriale, per la prima volta, una partita di Serie A. Quello è stato il momento in cui la mia fama è arrivata ai massimi livelli. La fine della mia carriera e l'inizio della storia del libro. Quello che mi ha insinuato dei dubbi è stato il silenzio assordante che nei giorni successivi è calato su quella decisione. Mi aspettavo che almeno dai vertici dell'AIA e dalle istituzioni calcistiche fosse utilizzata come uno spot, come un punto di partenza nella lotta al razzismo".

Ha trovato una spiegazione alla sua dismissione?
"È la ragione per cui ho iniziato questa battaglia per la trasparenza: capire perché a 38 anni, dopo aver diretto oltre 600 gare in carriera, di cui 50 in Serie A, dopo essere stato in quella stagione il quarto arbitro più utilizzato e avendo diretto persino una delle quattro partite ‘vere' dell'ultima giornata di quel campionato, con la salvezza in palio, sono stato dismesso. Motivate valutazioni tecniche, ufficialmente. In soldoni: non ero più idoneo a dirigere partite di Serie A".

Ed era davvero così?
"Sono andato a vedere se quelle valutazioni fossero realmente motivate. L'ho scoperto? No".

Chi non conosce la sua storia può pensare: ecco l'arbitro fatto fuori dal sistema che ora cerca vendetta.
"Voglio solo che quanto accaduto a me, per il bene del calcio e dell'AIA, non succeda ad altri. Evitare quei retropensieri che vedono gli arbitri assoggettati alle società di calcio e le polemiche divampare per una semplice mancanza di comunicazione. Un nuovo punto di partenza affinché il sistema arbitrale si apra, migliori dal punto di vista della comunicazione e della trasparenza".

A proposito di trasparenza: le dinamiche che regolano la carriera degli arbitri all'interno dell'AIA non ne sono un modello.
"Questo era un tema delicato da affrontare, perché molto tecnico. Ho pensato che la cosa migliore fosse pubblicare i referti. Per fare un esempio, il più noto, ho scelto Inter-Juventus del 2018, la partita che ha sancito l'assegnazione dello Scudetto (quella della mancata espulsione di Pjanic, ndr). L'arbitraggio di Orsato è stato valutato più che buono, come la mia direzione in Sampdoria-Napoli. Orsato resta uno degli arbitri più forti di sempre, ma è evidente che in quella partita sia inciampato in una serata no: qual è il motivo per cui a quella prestazione negativa è stato assegnato lo stesso voto di una prestazione positiva? Andando a scavare, avendo ricevuto per la prima volta nella storia dell'AIA i referti con cui veniamo giudicati, i parametri sono risultati incongruenti".

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Lei dice, sul VAR: "Strumento formidabile che può diventare carnefice della tua carriera”. Gli arbitri ne sono condizionati nell’utilizzo?
"L'arbitro è utilizzatore del VAR, ma allo stesso tempo lo subisce. Non ne ha mai parlato nessuno di questo, ne sono venuto a conoscenza leggendo i referti: nel momento in cui l'arbitro corregge al VAR un proprio errore, ripristina la verità del campo ma sancisce, sul piano personale, un voto negativo che andrà a penalizzare la valutazione della sua prestazione. Come se ad un poliziotto venisse dato un laser per rilevare la velocità di una macchina e gli si dicesse: se fai le multe utilizzando il laser, e non ad occhio, ti sarà decurtato lo stipendio".

Secondo questo meccanismo è inevitabile pensare ad arbitraggi condizionati.
"Gli arbitri sono abituati e formati a resistere ad ogni tipo di pressione, ma non è escluso che inconsciamente tutto questo finisca per incidere sull'aspetto psicologico di un arbitro, che quindi possa non essere sereno nella gestione del VAR. In un Torino-Fiorentina utilizzai per tre volte il VAR in maniera corretta, ristabilendo la verità del campo e correggendo il mio errore iniziale. Successivamente ho scoperto come quella prestazione fosse stata la più negativa di tutta la stagione".

Restiamo in tema di VAR. Le registrazioni dei dialoghi: viene registrato tutto? Esiste un archivio?
"Quello che posso dire, per esperienza diretta, è che come accade nelle trasmissioni televisive c'è un momento in cui non si è in onda. La nostra raccomandazione, mi ricordo, era quella di dire all'operatore: ‘Dicci quando parte la registrazione'. E partiva nel momento in cui iniziava la partita. C'era una registrazione audio e una video, con la telecamera all'interno del VOR (la sala VAR, ndr). Che al termine della partita l'audio integrale venisse vivisezionato, tagliato, archiviato e mandato a chi non so, non era mio compito saperlo. Quello che posso confermare è che l'intera partita, dal calcio d'inizio, veniva registrata".

Lei traccia i contorni di un’organizzazione, l'AIA, assoggettata ad un solo uomo. Marcello Nicchi.
"Faccio una precisazione: il mio non è un libro contro l'AIA. È un libro per l'AIA. Se Nicchi è a capo dell'AIA da 12 anni è perché le regole glielo permettono. Ma il sistema con cui si governa l'associazione è una sorta di ‘democrazia incompiuta', perché non c'è alcuna rappresentanza dell'opposizione e di chi la pensa diversamente ai vertici. Non è una questione personale nei confronti di Nicchi, ma di chiunque sia il presidente. Se dopo 12 anni c'è una persona al comando da tre mandati, che probabilmente si candiderà per un quarto, c'è stato un fallimento nel trovare un'alternanza politica e nel costruire un dirigente che possa prendere il posto dell'attuale presidente".

Nicchi per l’AIA ha rappresentato il dopo-Calciopoli.
"Penso sia stato un presidente che ha fatto anche cose buone, soprattutto in passato, ma non potrà mai essere il presidente del futuro per un'associazione che ha bisogno di cambiare passo, di una persona che culturalmente sia più avanzata, anche per una questione anagrafica. Serve un manager che porti l'AIA più vicina alla gente, che ne cambi il volto, che elimini il concetto dell'uomo nero e la renda più ricca in tutti i campi. Anche quello economico: solo un'associazione economicamente autonoma è un'associazione libera".

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Dopo il 2006 si è persa l'occasione per dare un'impostazione diversa al mondo arbitrale?
"Io all'epoca non c'ero, non facevo ancora parte del gruppo. Probabilmente dal punto di vista dell'autonomia c'è necessità di fare qualcosa in più. Senza giri di parole: l'uomo libero è l'uomo autonomo da un punto di vista economico. L'associazione non deve dipendere da chi poi deve andare a controllare. Giudici e giudicati non possono essere connessi".

Abbiamo sfiorato Calciopoli, abbiamo affrontato tematiche interne al sistema. Ma esistono ancora ingerenze dall'esterno?
"Se mi stai chiedendo se esiste la sudditanza psicologica, io ho coniato un nuovo termine, un'evoluzione: la sudditanza mediatica. Metto la mano sul fuoco su tutti i miei colleghi, persone integerrime e professionisti veri, che fanno della loro professione una ragione di vita. Ma non vengono garantiti da un sistema che gli permetta di poter essere sereni e liberi come dovrebbe essere un giudice".

A cosa si riferisce?
"Faccio un altro esempio. Un giudice precario sa che una sua sentenza errata potrebbe comportare la mancata assegnazione di una successiva udienza. È evidente che nel giudicare quella sentenza lo stesso giudice possa avere dei pensieri. Che non possa decidere in modo sereno. Confermo che non ho mai subito pressioni dirette, ma questo sistema, in modo indiretto, può condizionare i giudizi degli arbitri".

Una delle domande più ricorrenti sugli arbitri: perché non parlano?
"Perché non sono preparati e pronti a farlo. Noi arbitri veniamo formati per prendere decisioni, tirare fuori cartellini, fischiare calci di rigore. Per essere in grado di far rispettare le regole all'interno di stadi pieni, dove le pressioni aumentano. Ma non siamo allenati per parlare davanti a un microfono e manca la volontà di preparare gli arbitri, o chi per loro, a farlo. Come stanno facendo Uefa e Fifa, credo ci sia necessità di spiegare i processi che hanno portato ad alcune decisioni controverse. Qui in Inghilterra, dove vivo adesso, le squadre hanno il diritto di poter chiedere spiegazioni su decisioni controverse con un complain ufficiale e la federazione risponde con un comunicato o una conferenza stampa. Spiegando i motivi delle decisioni, anche errate, si fa cultura, togliendo di mezzo i fiumi di parole che durante la settimana riempiono giornali e tv. Ecco: se dovessi scegliere qualcosa da fare, in federazione o nell'AIA, questo è un progetto a cui lavorerei volentieri".

Ha ricevuto solidarietà e sostegno dai colleghi arbitri?
"Sì, sia quelli di vertice, sia dalla base. Un supporto in forma privata, naturalmente, perché gli arbitri sono legati all'associazione da un contratto che scade di anno in anno. Esporsi, alzare la mano e dire ‘Sono d'accordo' può portare a qualcosa di spiacevole. In fondo i primi a giovare dei successi che ho ottenuto, i passi in avanti fatti sulla trasparenza, sono proprio gli arbitri ancora oggi in campo".

Ha un rimpianto? Una scelta che non rifarebbe, o qualcosa che cambierebbe…
"Rimpianti nessuno. E' una caratteristica della mia persona. Rifarei tutto, compreso quel fischio al 30′ del secondo tempo di Sampdoria-Napoli, al centro del campo di Marassi. Se potessi cambiare qualcosa, cambierei il sistema di valutazione degli arbitri. Sceglierei di far valere le classifiche dei giornali, quelle che non mi hanno mai visto ultimo in graduatoria, così potrei continuare a fare quello che mi è sempre piaciuto fare, per cui ho speso la mia vita. Arbitrare".

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