"Il risultato più bello per il calcio italiano". Usare queste parole per celebrare il patteggiamento della Juventus, la cui ex dirigenza era stata deferita per aver violato i principi di lealtà, correttezza e probità (come recita l'articolo 4 del Codice di Giustizia Sportiva) è qualcosa che si poteva evitare.
Parlare di "serenità ritrovata" dopo un compromesso sulla riduzione del danno per una società che, al netto dell'impianto accusatorio confermato dal Collegio di Garanzia del Coni, era stata condannata una seconda volta ma in forma più lieve (dal -15 al -10) per lo stesso filone (quello delle plusvalenze fittizie) è una capriola dialettica difficilmente comprensibile.
Leggere l'accordo tra incolpato (i bianconeri) e la Procura federale che aveva già fissato la data per il processo (15 giugno) sul filone manovre stipendi, rapporti con gli agenti, partnership con altre società come una sorta di atto di pacificazione nazionale è inaccettabile. Non perché la Juve andasse affondata, distrutta e spazzata via, spedita in B e quant'altro di peggio si possa augurare. No, non sarebbe stato giusto porsi con questo animo.
Ma neanche lo è lasciar passare il messaggio che quanto accaduto in queste ore sia una sorta di trionfo della giustizia "veloce, puntuale, rigorosa" soprattutto per la tempistica sfasata che l'ha caratterizzata, con tutto quel che ne è derivato in termini di equilibri e condizionamenti sull'intero campionato. E se a esprimere questi concetti è il presidente della Federcalcio, Gabriele Gravina, è anche peggio.
Se la Juventus, che ha trattato sulla sua posizione, s'era ritrovata in una vicenda scabrosa non è stato certo per l'ira funesta e forcaiola della stessa Procura federale, che prima ha operato di slancio improvviso e poi, poco alla volta, ha sancito la chiusura del caso modulando con gli avvocati il male minore (una multa di 700 mila e rotti euro) rispetto alla mole e alla gravità delle imputazioni, ma a causa dell'Inchiesta Prisma di Torino e delle violazioni che i magistrati hanno rilevato nella gestione finanziaria e dei bilanci prefigurando ipotesi di reato in ambito penale.
In buona sostanza, a cacciare la Juve in questo pasticcio è stata se stessa, il board dimissionario e inibito che l'ha diretta in questi anni (inibizioni ribadite anche dal Collegio di Garanzia del Coni oltre che dalla CAF). E, tutto sommato, non ne esce così male: ha conservato un posto in Europa, ha regolato oggi e subito i conti con la giustizia sportiva, e adesso può riprendere a programmare il futuro con meno ansie anche in caso di sanzioni dell’Uefa. Perché è meglio star fuori dalla Conference quest'anno (magari sacrificando un trofeo nemmeno tanto redditizio sull'altare del rischio calcolato) che imbattersi in un tremendo biennio di assenza dalle Coppe.
"Con questi 30 giorni – ha aggiunto il numero uno della Figc – la giustizia esaurisce il suo corso". Già, peccato che in questo mese (compresa la scia di veleni che s'è portata dietro) sia accaduto di tutto e la stagione stravolta per ben tre volte nel giro di poco tempo: -15 iniziale inflitto alla Juve, cancellato con pena da rivedere rinviando tutto in Corte d'Appello, nuova sentenza di -10. E che, alla luce di tutto ciò, il presidente Gravina commenti con grande soddisfazione ed enfasi sincera l’epilogo del secondo processo sportivo spiega in quale abisso è sprofondato il calcio italiano.