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Argentinos Juniors-Juventus, il trionfo dei perdenti nel giorno di Platini

Lo scontro tra Argentinos Juniors e Juventus valido per la Coppa Intercontinentale del 1985 rappresenta una pagina di storia unica specialmente per i sudamericani. Da outsider assoluto l’Argentinos riuscì a dare del filo da torcere ai campioni d’Europa, che si imposero solamente ai calci di rigore in una finale dalle mille emozioni.
A cura di Antonio Moschella
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Parafrasando un famoso tango di Carlos Gardel, i tifosi attempati e nostalgici dell'Argentinos Juniors direbbero: "Trentacinque anni non sono nulla". Ed è un po' questa la sensazione che si percepisce tra coloro che l'8 dicembre 1985 hanno sfidato la potentissima Juventus in finale di Coppa Intercontinentale. Un'autentica trasposizione della sfida tra Davide e Golia. Per lo storico giornale argentino El Gráfico fu un match "indimenticabile" per agonismo e parità di valori in campo, nonostante sulla carta fosse una partita senza storia. "L'Argentinos Juniors non aveva la storia della Juve. Non era il River Plate o il Boca Juniors", racconta a Fanpage.it Roberto Avanzi, allora medico sociale della squadra sudamericana, il quale provò a preparare la grande sfida con perspicacia. "Passare dalla primavera inoltrata di Buenos Aires al rigido inverno di Tokyo per poter rendere al meglio in campo richiedeva un periodo di adattamento di almeno dodici giorni, ma il nostro club non poteva permettersi di pagare l'alloggio per quasi due settimane in Giappone". Insieme all'allora capitano Adrián Domenech, Avanzi riuscì però a convincere la dirigenza a partire otto giorni prima dell'incontro, con la promessa che i membri della prima squadra avrebbero pagato le quattro notti restanti di soggiorno originariamente fuori dal budget. Il 6-4 finale ai calci di rigore per i bianconeri, dopo il 2-2 dei 120 minuti precedenti, fu un risultato storico soprattutto per i sudamericani, tornati in patria come vincitori.

Sorteggio maledetto

L'arrivo anticipato aiutò gli argentini, che scesero in campo motivati e in forma. Eppure, già prima di iniziare, il capitano Domenech ebbe un brutto presentimento: "Persi il sorteggio con Scirea. Non sono una persona eccessivamente scaramantica, ma lo interpretai come un cattivo presagio" confessa a Fanpage.it colui che dopo vari anni in squadra con Diego Armando Maradona aveva raccolto la fascia di capitano nel 1982. Dopo un primo tempo serrato, nella ripresa l'animo guerriero dei sudamericani fu più forte dei valori teorici e l'Argentinos si portò in vantaggio in due occasioni, venendo ripreso prima da Platini su rigore e poi da Laudrup a otto minuti dal fischio finale. Alberto Perez, allora vice presidente, ricorda come "alla Juve annullarono ingiustamente un gol splendido realizzato da Platini, il quale poi protestò stendendosi a terra di fianco". Quel gesto del numero 10 bianconero a ricordare la famosa scultura di Antonio Canova raffigurante Paolina Borghese sarebbe passato poi alla storia ancor più della vittoria finale. Un trionfo che sarebbe arrivato solo ai rigori, momento nel quale la forza mentale degli italiani fu decisiva.

Entrare duro su Platini

Miguel Lemme era uno degli elementi più esperti dell'Argentinos, eppure in quel match non giocò neanche un minuto. Tutta colpa di un suo pensiero ad alta voce negli spogliatoi all'intervallo: "Voglio andare in campo per entrare duro su Platini". Dopo aver ascoltato quella dichiarazione d'intenti neanche troppo velata, il tecnico argentino José Yudica gli rispose: "Ci sta guardando tutto il mondo, non possiamo fare una figuraccia globale". L'esperto mediano fu dunque costretto a restare in panchina mentre capitan Domenech fu protagonista di uno scontro importante con le Roi Michel: "Avevo avuto un taglio sullo stinco nell'ultima partita di campionato, e nel viaggio in aereo i punti erano saltati. Dopo esser stato medicato alla meglio, arrivai alla partita con la ferita ancora non cicatrizzata. E in un duro ma fortuito contrasto con Platini si riaprì nuovamente, perché all'epoca non si usavano i parastinchi. Ma Platini per noi era come Pelé, e il sangue che usciva dalla mia gamba mi diede ancora più motivazione e strinsi i denti". Fermare Le Roi, tuttavia, non sarebbe bastato per avere il meglio su una squadra piena di campioni come Cabrini, Scirea e Laudrup.

Scaramanzia nefasta

Una battaglia campale ma nobile quella del National Stadium di Tokyo nel quale si sfidava una storica squadra conosciuta urbi et orbi e una compagine di quartiere. L'Argentinos era un'associazione sportiva di rione che solo nel 1984 aveva vinto il suo primo campionato argentino e aveva alzato al cielo la sua prima Libertadores un mese e mezzo prima sempre ai calci di rigore nello spareggio di Asunción contro l'America de Cali.  È lo stesso Perez a ricordare come a Tokyo risultò nefasto ricorrere alla scaramanzia: "Come rigoristi erano stati designati gli stessi della finale di Asunción, nell'ordine Olguín, Batista, Borghi, Pavoni e Videla. Ma alcuni di loro avevano le gambe congelate dal freddo. Fu quello a condannarci, anche se nel nostro cuore eravamo campioni anche noi dopo quanto dimostrato fino a quel momento". Decisivi gli errori dagli undici metri di Batista, che sei mesi dopo sarebbe stato campione del mondo con l'Argentina, e di Pavoni, stremato dopo aver marcato Laudrup per 120 minuti. Lo scontro tra l'esercito torinese e la tribù argentina vide trionfare gli italiani, ma il giorno dopo in Giappone tutti esaltarono il 21enne Claudio Borghi invece di Platini. L'argentino, acquistato in seguito dal Milan, non riuscì più a brillare come in quel pomeriggio nipponico, eppure a Tokyo, Buenos Aires e Torino viene ancora oggi ricordato per quell'esibizione.

Due viaggi di trenta ore ognuno avrebbero segnato per sempre la vita dei componenti della rosa di quell'Argentinos, giocatori normali arrivati sulla cima dell'Everest che tornarono a casa stremati. Ma da ‘vincitori', come ricorda Avanzi: "Fu qualcosa d'inedito e inimmaginabile. Avevamo perso solo ai rigori contro la Juventus. Quando tornammo a casa ci sentimmo campioni, nonostante tutto. Fino a pochi anni fa non esistevamo neanche a livello mondiale". Il seme piantato da Maradona fin dal suo esordio del 1976 aveva fatto sbocciare il suo frutto più dolce di sempre. E anche il più immortale.

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