Aldo Serena: “A Italia ’90 ebbi un attacco di panico, da 30 anni non colpisco una palla di testa”
Si può essere "ccezionale" e restare coi piedi per terra anche se spicchi il volo per colpire di testa. Aldo Serena ha fatto la storia del calcio italiano giocando e vincendo lo scudetto in 3 grandi club italiani diversi (Juventus, Inter e Milan 2 volte) e sfiorandone uno con la maglia del Torino.
Nelle sue riflessioni ci sono quattro, cinque parole essenziali che tornano spesso nei concetti espressi: educazione, rispetto, umanità, dedizione, cultura del lavoro. Le ritrovi anche adesso che è dall'altra parte della barricata, in tv. Che sia a Mediaset oppure a Sky, nel salotto oppure in telecronaca, il successo non l'ha cambiato. La tempra è rimasta quella che gli ha trasmesso il padre. "Cerco di mantenermi vivo con qualche interesse e altre attività collaterali", dice l'ex attaccante dalla "sciabolata morbida" alla Sandro Piccinini (voce narrante che spesso ha affiancato).
E non stupisce affatto che abbia deciso di donare i suoi proventi del libro ‘I miei colpi di testa' all'Istituto Tumori di Milano. "A Milano ho vissuto quasi 30 anni. È la città che mi ha accompagnato nel mio percorso di crescita. E ho pensato di ricambiare, in qualche modo, quello che mi ha dato". In una frase c'è il racconto di un mondo che ancora aiuta a conservare un po' di quella sana illusione che faceva muovere la vecchia generazione, quelli che trovi nei libri e negli almanacchi perché devi pure credere in qualcosa in tempi in cui il football è diventato straniante.
Serena, com'è cambiato essere calciatori rispetto alla sua epoca?
"La società è cambiata e quindi i giovani sono cambiati in relazione ai tempi, così come noi eravamo diversi dalle generazioni precedenti. Anche chi partecipa al calcio ha dinamiche diverse. Oggi ci sono i social che sono un veicolo importante per la promozione di se stessi ma possono essere penalizzanti, soprattutto ad alto livello e quando si è molto giovani per le critiche feroci e i commenti anche pesanti che si ricevono. Ecco, credo che le squadre debbano avere strumenti e persone che possono aiutare la crescita di questi giovani ragazzi che magari hanno anche molto denaro a disposizione e rischiano di perdere un po' la bussola".
Lei, invece, la bussola no l'ha mai persa.
"Ai miei tempi era tutto diverso. Come dire… eravamo un po' più ruspanti, avevamo un contatto molto diretto e immediato con tifosi e gli stessi giornalisti. Entravano nello spogliatoio quando eravamo sotto la doccia… e allora capitava che facevi l'intervista anche se avevi ancora addosso l'asciugamano. Adesso i calciatori hanno filtri molto profondi e può capitare di perdere contatto con la gente e i tifosi".
Cosa le ha dato il calcio?
"La libertà di scegliere anche se non ho scelto le squadre in cui giocare perché l'Inter era proprietaria del mio cartellino e mi cedeva in prestito. Al di là di tutto, sono riuscito a trasformare in professione quella che era una mia passione, il sogno da ragazzo. Quando sei giovane hai voglia di vivere la vita facendo quello che ti piace. E io, grazie al calcio, ci sono riuscito. Mi ha regalato benessere, insegnamenti, possibilità di fare tante esperienze e conoscere figure importanti".
Che consiglio darebbe a un giovane calciatore?
"Ho un figlio che ha 14 anni, gioca a calcio e vedo che ne è attratto tanto. Gli dico di cercare di divertirsi, non aver paura di mostrare la propria emotività pur restando rispettoso con gli altri, di fare gioco di squadra, di integrarsi nel gruppo in maniera molto più profonda. Poi puoi diventare o meno professionista, ma questa capacità che si scopre e si coltiva nelle relazioni sportive di gruppo aiuta nella vita, nel lavoro, nelle relazioni sociali. Gli parlo dell'importanza di avere un contatto con gli altri… gioire insieme, anche perdere insieme è importante. E non è così frequente in una società come la nostra che tende all'egoismo e all'individualismo".
Ha giocato in tante squadre, anche ad altissimi livelli. Come ha fatto a essere un personaggio così trasversale in un mondo in cui è facile avere addosso l'etichetta di traditore per un cambio di casacca?
"Ovunque ho giocato ho tentato sempre di essere rispettoso verso l'ambiente in cui mi trovavo… dirigenti, compagni, allenatori, tifosi. La mia carriera è stata fatta dall'Inter che mi dava in prestito e mi riprendeva. Ma questa cosa mi ha aiutato a maturare molto per le differenti esperienze. La gente ha sempre apprezzato la mia totale dedizione alla maglia del momento, anche quando affrontavo le mie ex squadre ero stimolato a fare bene. Ecco perché spesso ho fatto gol nei derby e in altre sfide. Ho sempre dato tutto".
Costruzione dal basso, possesso palla, si cerca di meno il cross. Come si sarebbe trovato in questo calcio?
"Oggi va così. Una volta gli spazi erano molti ampi e giocare una palla lunga oppure metterla in mezzo faceva parte di un certo modo di interpretare il gioco. La costruzione dal basso, se sei più forte, va bene ma non deve essere fine a se stessa. Ma se non sei forte tanto vale fare un paio di passaggi e metterla in mezzo".
Lei non ha mai avuto un procuratore. Era agente di se stesso, altra ‘anomalia' rispetto alla situazione odierna.
"Ho sempre trattato personalmente i trasferimenti. Ci tenevo a relazionarmi direttamente con presidenti e allenatori. Non volevo essere ceduto per quel che non ero. Ho sempre cercato un dialogo sincero per far capire dove ero forte, dove e come potevo essere un plus. Così da essere chiaro: chi prendeva Serena sapeva che si sarebbe messo a disposizione della squadra ma anche che aveva della caratteristiche precise. Quelle di uno che sapeva come stare in mezzo all'area".
Berlusconi è stato suo presidente al Milan. Nell'epoca delle proprietà straniere e dall'identità indefinita quel Milan è stato esempio tangibile di un'identità propria molto forte.
"Berlusconi ha dato uno strappo per quanto riguarda organizzazione, volontà di competere e vincere, capacità di creare strutture ad altissimi livelli. Ha trasformato Milanello, cercato i migliori professionisti al mondo. Mandò il dottor Tavana, il nostro staff medico, a formarsi nella franchigia che in quel momento era fortissima come i Chicago Bulls. Studiarono gli aspetti medici e come affrontavano le diverse problematiche di un atleta. E da lì tornarono con un bagaglio di nozioni importanti. Berlusconi ha cercato il meglio e l'ha messo a disposizione dei calciatori. Nel calcio ci sono degli illuminati che arrivano – come Moratti negli Anni Sessanta e Agnelli – e danno uno strappo in avanti innalzando il livello".
Lei è stata una delle prime seconde voci in telecronaca. Com'è stato vedere e parlare di calcio da un'altra prospettiva?
"Ricordo due aneddoti che spiegano come abbia dovuto studiare per interpretare al meglio il ruolo. La prima partita che feci fu Lazio-Ajax ad agosto, in quel periodo le squadre erano ancora in preparazione, i ritmi erano i bassi ed era normale ma io fui molto severo nel giudizio. Ogni tanto sentivo un signore in cuffia che diceva: se ne sono andati cinquemila… diecimila. Era il regista che mi spiegò che non dovevo dire bugie ma nemmeno potevo stroncare il prodotto trasmesso. Durante un Aek Atene-Milan invece ci fu un brutto errore di Costacurta e io, che ero stato compagno di Billy fino a un anno prima, non me la sentii di sottolinearlo… edulcorai un po' la pillola. Il direttore di Mediaset mi chiamò e mi spiegò che ormai non ero più calciatore, che dovevo mettere da parte certi sentimenti. Mi disse: Vai dritto, dai pure il tuo giudizio ma senza offendere nessuno".
Cosa ne pensa delle telecronache odierne?
"Possono essere d'aiuto a interpretare i movimenti e il senso tattico di alcune squadre. Alcuni hanno qualità e lessico forbito, simpatico. Non mi piace la tendenza che hanno altri alla telecronaca sudamericana, ne preferisco una più razionale e meno enfatica come quella europea. Ma questo non vuol dire che non si possa avere trasporto emotivo a patto che la partecipazione sia sincera a seconda delle partite che possono essere più entusiasmanti e altre meno".
Il gol più bello.
"Sicuramente quello segnato quando avevo 18 anni in Inter-Lazio nel 1978. È stata la mia prima grande soddisfazione, è come se si fosse aperto un mondo".
Come ci si sente a tirare un calcio di rigore?
"Non sono mai stato rigorista. Ne avrò calciati una decina in carriera. In finale di Coppa Intercontinentale con la Juve lo tirai e lo segnai. Ma ero pronto anche psicologicamente, me l'aspettavo che poteva capitare. E durante la preparazione della partita avevamo lavorato su questa cosa".
Invece con la Nazionale andò malissimo.
"Il rigore di Italia 90 è la parte più bassa… ho toccato il fondo della mia carriera sportiva. Non ne avevo battuti in allenamento e nemmeno ero tra i rigoristi. Ricordo che ero a terra e mi sono rilassato aspettando i compagni che li calciassero. Vicini mi disse che non aveva nessuno e che, a parte Donadoni, non aveva più calciatori. Non potevo rifiutare, avevo 30 anni, mi aveva convocato e per riconoscenza ho tirato. Ma avevo perso il controllo di me stesso, facevo fatica a stare in piedi, le gambe un po' ballavano, a stento riuscivo ad avvicinarmi all'area. Ho avuto quasi un attacco di panico. Ho pensato anche che questa cosa se fosse successa ancora sarebbe stata un bel problema, invece non è successa più e quell'esperienza mi ha aiutato".
Gli allenatori che ricorda di più e ai quali è più legato.
"Chi ti vuole e ti porta da un'altra parte è quello che ti stima non solo come calciatore. Da questo punto di vista per me Radice e Trapattoni tra Toro, Inter e Juve mi hanno dato molto. Sono molto legato a loro che avevano l'umanità come matrice comune. E dico anche Bearzot perché aveva un'educazione umanistica e cercava nel contatto coi calciatori non solo la qualità tecnica ma la volontà, l'umanità, l'intelligenza, la capacità di capire come si sta in una squadra".
Con quale tecnico lavorerebbe oggi?
"Quello che ti fa cambiare e migliorare. E da questo punto di vista Guardiola è sicuramente un allenatore di riferimento. Non lo dico solo perché ha vinto la Champions e adesso va così. È innovativo con idee continue che cambiano la sua interpretazione del calcio. E con lui un calciatore può solo crescere e perfezionarsi".
Chi erano gli idoli di Aldo Serena?
"Diciamo che mi piacevano quei calciatori che avevano un aspetto un po' particolare per i tempi. Quelli che avevano basette e capelli lunghi, i calzettoni abbassati. Mi ricordo Neeskens, Meroni, Best. E poi c'era Mike Channon che aveva basette molto folte".
Le cito due campioni del passato che ha incrociato: Zico e Socrates. Cosa le ricordano?
"Ero giovane e un po' gasato e durante Udinese-Torino urlavo cose di campo a Schachner, mio compagno di squadra, che faceva errori. Zico mi fece notare che era meglio la smettessi con quell'atteggiamento perché non lo stavo aiutando. Socrates, invece, mi ha dato un consiglio che non ho più dimenticato e qualche pensierino me lo ha lasciato".
Quale?
"Dopo un Fiorentina-Torino andammo a cena e lui, che era un medico e sapeva che il mio pezzo forte era il colpo di testa, mi disse: Guarda che i neuroni non sono infiniti e a ogni colpo di testa ne perdi qualcuno e non lo ritrovi più. Da quando ho smesso di giocare non ho più colpito la palla di testa".