Agnelli, l’Atalanta, la minaccia Super Lega: il piano dei top club che vogliono più soldi
Non tira una bell'aria tra i grandi club d'Europa e la Uefa. Le parole di Andrea Agnelli al summit del Financial Times sulla presenza dell'Atalanta in Champions League, con un esempio discutibile rimette al centro del discorso un modello calcistico alternativo. Agnelli, presidente anche dell'European Clubs Association (ECA), l'associazione dei club che elegge due membri nel Comitato esecutivo dell'Uefa, rilancia un progetto nato morto, la SuperLega europea, una competizione sostanzialmente chiusa con le squadre più blasonate del continente a giocare fra di loro a beneficio di sponsor e televisioni.
Il G14 e la prima idea di SuperLega
L'idea non è nuova. Il progetto è all'origine della prima frattura, all'inizio degli anni Duemila, tra il G14 e la Uefa. Il G14 riunisce 14 club influenti che mettono insieme oltre 41 tra Coppe dei Campioni e Champions League al momento della fondazione, nel 2000. Il club nasce intorno a otto squadre, come ha spiegato Umberto Gandini, dirigente del Milan dal 2013 al 2016, passato poi alla Roma e alla Uefa prima di diventare amministratore delegato della Lega Basket. “Il Milan era uno dei club fondatori. Ne abbiamo individuati altri sette che avevano vinto almeno tre trofei europei: Juve, Inter, Real Madrid, Barcellona, Liverpool, Ajax e Bayern Monaco. Era un gruppo selezionato di squadre, scelte per ragioni storiche e meriti sportivi. Abbiamo iniziato a discutere con Media Partners per una SuperLega”.
In questa dichiarazione, che fa parte di un'intervista personale a Anthony King, inserita nel suo libro “Football rituals” c'è il senso del progetto e un dichiarato obiettivo di incremento dei diritti televisivi, visto il coinvolgimento di Media Partners, intermediario nella commercializzazione dei diritti sportivi. Più che al modello delle leghe degli sport americani, che stanno pensando di passare dal sistema delle franchigie a un modello di promozioni e retrocessione e hanno comunque una serie di vincoli per la sostenibilità dei conti delle singole squadre partecipanti, è a questa idea che sembra guardare, in prospettiva, Agnelli.
L'attuale Champions è un giardino per pochi
Questo progetto ha incontrato sempre forti obiezioni. Sono contrarie le squadre medio-piccole e i vertici delle leghe, come Javier Tebas numero 1 della Liga spagnola, preoccupati dall'effetto di svalutazione sui campionati nazionali. Ma ogni volta che si avvicina una riforma della Champions League, e della prossima si discuterà nell'assemblea dell'ECA a Budapest a fine marzo e poi nel prossimo Comitato esecutivo Uefa, l'idea in qualche modo ritorna.
Eppure, la Champions è già ora un giardino riservato in cui pochi lottano per vincere e gli altri possono al massimo entrare per dare un'occhiata furtiva. Dal 2003, dalla vittoria del Porto di Mourinho, non c'è più stata una finalista proveniente da un campionato diverso dai primi cinque d'Europa: Bundesliga, Liga, Ligue 1, Premier League e Serie A. I meccanismi di distribuzione della ricchezza hanno aumentato le disuguaglianze. Il peso crescente del market pool, ridotto dall'anno scorso, che premia le squadre dei campionati, e dunque dei mercati, maggiori va in questa direzione. Il fair play finanziario, che ha il limite di applicarsi solo alle squadre che si qualificano per le coppe europee, ha avuto effetti benefici a livello macro, di conti del sistema calcio europeo nel suo insieme, ma non ha affatto ridotto le disuguaglianze nelle competizioni. Anzi.
Uefa: il 49% della ricchezza in mano a 30 club
I dati dell'edizione 2020 del rapporto “European Football Landscapes” della Uefa, aggiornato con i dati 2018, rivela che le 30 squadre più ricche concentrano il 49% della ricchezza di tutte le formazioni nei campionati di prima divisione d'Europa. Sono club concentrati nei leghe più importanti, che sono anche i campionati in cui è più alto il peso dei diritti televisivi sul totale dei ricavi delle squadre: 53% in Inghilterra, 47% in Italia, 42% in Spagna, 37% in Francia, 34% in Germania, unico caso nelle leghe del Big-5 in cui i ricavi commerciali superano gli introiti garantiti dalle tv.
L'Europa del calcio è evidentemente a due livelli. Una media formazione di Premier League inglese, rileva la Uefa, riesce a incassare dalle televisioni più di tutte le 400 squadre di prima divisione nelle leghe non comprese tra le 20 più ricche dell'area. Naturale che quando si ritrovano nello stesso girone in una competizione europea, è come se giocassero due sport diversi.
Il peso delle tv e il valore dell'equilibrio competitivo
In questo contesto, l'equilibrio competitivo è un valore. Nel senso economico del termine. Perché, dal punto di vista economico, la Champions League è un prodotto televisivo, che dai diritti tv deriva le risorse che vengono distribuite alle squadre, sia nella fascia del market pool sia nella dimensione dei premi per le prestazioni. Le televisioni hanno interesse a trasmettere un prodotto appetibile, che possa interessare gli spettatori. E il competitive balance, l'incertezza sul risultato, è un fattore che orienta il comportamento dei telespettatori più che le scelte dei tifosi allo stadio. Il calcio in tv compete con i contenuti dell'intrattenimento, del leisure time in genere. Il decadimento dell'equilibrio in Champions, evidenziato già l'anno scorso in uno studio del CIES che sottolineava l'aumento nella fase a gironi di vittorie larghe e dei punti ottenuti dalle squadre prime classificate, non aiuta. Non aiuta nessuno dei soggetti coinvolti.
Non è un vantaggio per le formazioni che arrivano dai campionati “minori”, quelli che l'allora presidente Platini ha cercato di accontentare modificando il meccanismo dei preliminari per garantire cinque posti ad altrettante vincitrici di quelle leghe. È una manifestazione di un principio di creazione del consenso che ha assorbito da Sepp Blatter: “una nazione, un voto”, uno vale uno. Ovvero il voto dell'Armenia vale quanto quello dell'Inghilterra, e i piccoli sono di più. Ma le conseguenze positive nei ricavi per le comparse della Champions hanno effetti di breve durata.
Non è un vantaggio per i top club continuano ad avvertire la presenza dei “piccoli” come un freno alle potenzialità economiche individuali e complessive. E in seconda battuta anche allo sviluppo sportivo: “Che senso ha giocare contro San Marino?” si chiedeva l'attaccante tedesco Thomas Muller nel 2016. Non è un vantaggio per tifosi e televisioni. Non a caso l'attenzione aumenta quando si arriva alla fase a eliminazione diretta, quando l'incertezza aumenta insieme al valore di ogni singola partita.
Campionati fra "pari" contro calcio romantico
L'opportunità di giocare più partite solo fra “pari” manifesta un'idea di calcio molto poco romantica, con cui però bisognerà fare i conti, perché è il clima in cui i tifosi di questa e delle prossime generazioni sono di fatto cresciuti. C'è un'idea di sport come business, c'è una crescente insofferenza delle squadre di vertice verso le organizzazioni sovranazionali, i limiti, i freni. C'è un'aspirazione a una libertà di iniziativa economica e poi sportiva che è sempre più frequentemente intesa come garanzia, sicurezza, autonomia. Anche la battaglia del Manchester City contro la Uefa per le violazioni al fair play finanziario fanno parte dello stesso scenario. Di quella che Donatella Di Cesare, in un articolo su la Lettura del Corriere della Sera definisce “democrazia immunitaria”, che aumenta le distanze tra gli intangibili e gli esposti.
Una distanza che ormai è forse incolmabile nel calcio europeo. I top club, forti del loro essere le star dello show, il valore aggiunto senza il quale non esisterebbe l'evento, chiedono di pesare ancora di più e minacciano, altrimenti, di crearne uno loro, di evento. La Uefa si trova nel mezzo, a governare una transizione senza punti di riferimento, provando a tenere insieme quel che insieme non sta già più. Senza una stabilizzazione dei ricavi, ormai praticamente impossibile, anche la governance del calcio europeo potrebbe assumere una doppia velocità.