Pete “Pistol” Maravich, il genio NBA che rivive in Curry, Doncic e tanti altri
Domenica notte Stephen Curry ha messo ancora una volta una pietra per la costruzione del suo monumento dedicato ai posteri. Nella partita contro Portland ha segnato 62 punti, con il 58% complessivo dal campo (18/31), uno spaventoso 50% da tre (8/16) e 94.7% ai liberi (18/19). Lo ha fatto per togliersi di dosso un po’ di ruggine che lo scorso anno è spuntata, nel primo anno di ricostruzione dei suoi Golden State Warriors dopo la loro dinastia, e per continuare ad affermare di essere ancora uno dei migliori giocatori al mondo.
Andiamo a vedere l’albero genealogico di Curry. No, non quello che porta al padre Dell, buon giocatore tra gli altri dei Charlotte Hornets, e nemmeno al fratello Seth, guardia tiratrice dei Philadelphia 76ers. Parliamo di discendenza tecnica, del padre o meglio del fratello maggiore che ha mostrato al mondo del basket cosa volesse dire essere così letali ma con quella grazia. E queste indicazioni portano a un solo nome: Pete Maravich, morto il 5 gennaio 1988, ma indimenticabile non solo per chi lo ha visto, ma anche per chi vede ogni sera da tanti atleti diversi tante sue immaginazioni tecniche introdotte da “Pistol” nel basket americano.
Il padre Petar "Press" Maravich, allenatore di basket, vuole mescolare in un figlio campione il sangue slavo, i dettami dello sport e della vita americana e la determinazione del migliore. Fin da piccolo Pete è essenzialmente un mostro. Grazie o per colpa, dipende da che angolazione li guardiamo, degli allenamenti pressanti e continui del padre, soprattutto al tiro, Pete è infallibile.
All’High School è già il fenomeno di cui tutto il Paese parla e scegliendo LSU, dove allena il padre, fa la storia. Al primo anno fa 50 punti di media nella squadra dei rookie. La squadra gioca prima della titolare, ma restano quattro gatti sugli spalti. Ormai Pete, che diventa Pistol per la precisione e il tipo di rilascio del tiro, è sotto la doccia.
Nei tre anni successivi segna 44,2 punti a partita, supera i 50 in 28 partite e nel 1970 “The Sporting News” lo nomina giocatore dell'anno e vince il Naismith Award. In quei tre anni mette 3.667 punti, ancora oggi record NCAA. Piccolo dettaglio: al tempo non esisteva il tiro da tre. Immaginate quel tiro e quella precisione con la possibilità di segnare tre invece che due punti. Forse parleremo di medie oltreumane.
Nel 1970 va agli Atlanta Hawks, dove oggi c’è un altro giocatore che lo ricorda, Trae Young. Nella prima stagione mette lì un’annata da 23 di media e continua così, fra Atlanta e New Orleans, squadra in cui passa nel 1974. Non vince mai perché nelle sue squadre c’è quasi sempre solo lui, gli altri fanno arredo e non contribuiscono.
Chiude nel 1980, a 33 anni, un po’ per un problema a una gamba, un po’ perché non gli va più. In quei 10 anni ha mostrato meraviglie che ancora oggi fanno strabuzzare gli occhi. Con la palla era il prestigiatore numero uno in circolazione, capace di illudere e nascondere intuizioni, come nessuno dopo di lui. Era infuso di grazia, ma era anche un caimano del canestro. Efficienza armoniosa è un concetto che lo potrebbe marchiare. Ma aveva il corpo elastico e leggero dei campioni di oggi? No, sembrava un adolescente cresciuto o un vecchio dalla faccia di bimbo. Una fascia muscolare rivedibile non copriva una struttura essenzialmente fatta di nervi e pelle.
Difficile dire di più, l’unica cosa da fare è sedersi da qualche parte, andare su Youtube e scrivere quel nome e cognome. Per 30 minuti vi daranno per dispersi. Morì il 5 gennaio di 33 anni fa per un infarto durante una partita a Pasadena invitato da un giornalista. Si scopre che dentro quel corpo non aveva l'arteria coronaria sinistra. Non sarebbe mai dovuto essere Pistol Pete Maravich. Eppure ci è riuscito.