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Perché Ibrahimovic si sbaglia su LeBron James: quello che fa non è politica

Le parole di Ibrahimovic su LeBron James (“Non mi piace quando fa politica”) hanno suscitato ovviamente tante polemiche rispetto a come sia da qualificare l’attività del campione NBA e a quanto, ai giorni nostri, sia realmente possibile tracciare una linea tra politici di professione e non, tra attivismo sociale e politica nel senso più autentico del termine.
A cura di Luca Mazzella
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In un'intervista rilasciata alla UEFA, i cui estratti sono poi stati ripresi da diversi canali e emittenti televisive, Zlatan Ibrahimovic tra le altre cose è stato interpellato su LeBron James. Lo svedese, appassionato anche di pallacanestro, ha detto poche ma significative cose destinate a far discutere.

"LeBron mi piace molto. Quello che fa è fenomenale, ma non mi piace quando le persone con qualche tipo di ‘status’ parlano di politica. Fai quello in cui sei bravo. Fai quello che fai. Io gioco a calcio perché sono il migliore nel giocare a calcio. Non faccio politica. Se fossi stato un politico, avrei fatto politica. Questo è il primo errore che le persone famose fanno quando si sentono arrivate. Per me meglio tenersi lontano da questi argomenti, e fare quello in cui si è bravi, altrimenti rischi di non farci una bella figura”.

Sorvolando o comunque scegliendo di non pronunciarci sulla considerazione prettamente calcistica che Ibra ha di se stesso e su dove sia effettivamente collocabile lo svedese tra i migliori giocatori di questo sport, è evidentemente sul resto del messaggio che ci sarebbero diverse osservazioni da fare. La prima, su tutte: LeBron James parla di politica? LeBron James "fa politica" come dice Ibra? Cerchiamo di capire cosa si intenda allora per politica e come sia inquadrabile l'attività che da anni porta avanti LeBron in questo senso.

Politica o attivismo sociale?

La maglietta con scritto I can't breathe per denunciare il soffocamento dell'afro-americano Eric Garner, il cappuccio messo in testa per ricordare la morte di Travyon Martin, la LeBron James Foundation, la I Promise School, la creazione della no-profit More Than a Vote negli ultimi mesi per consentire l'accesso al voto a migliaia di persone delle comunità più povere e meno alfabetizzate d'America. Una serie di iniziative, qui semplicemente elencate, con le quali l'atleta-LeBron si è spinto ben oltre il parquet per incidere, concretamente, sul benessere della società grazie a un attivismo che negli anni ha poi raccolto diverse adesioni tra decine e decine di giocatori. E che hanno posto il nativo di Akron allo stesso livello che fu dei vari Bill Russell, Kareem Abdul-Jabbar, Muhammad Alì, fino alla sinergia col più recente Colin Kaepernick, le proteste contro l'inno, l'inginocchiarsi durante la sua esecuzione per porre l'accento sulle disparità della società americana, la violenza della polizia, il razzismo latente che aleggia ormai, citando Kareem Abdul-Jabbar "come polvere nell’aria”.

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In questo, il contributo fattivo degli atleti più esposti rappresenta una delle tante occasioni in cui, a differenza di chi negli anni ha invitato personalità del genere a limitarsi senza sconfinamento in tematiche più grandi e complesse di un "palleggio" (il famoso "Shut ut and dribble" rivolto dalla giornalista Laura Ingraham a James) lo sport è stato capace di spostare e di molto l'opinione pubblica soprattutto dei più giovani verso una maggiore sensibilità a tematiche sociali altrimenti lasciate alla propaganda, quella sì politica, di diversi esponenti, candidati alla Presidenza del Paese o Presidenti in carica. Ogni riferimento a Donald Trump e alle sue invettive intrise di rabbia che nel 99% dei casi sono state indirizzate verso atleti neri è voluto.

Un modus operandi, quello dell'ex Presidente, che ha spostato e di molto il mirino su diverse battaglie di civiltà sostenute dagli atleti rendendole, implicitamente, tematiche politiche. Ed è qui che si è creato, non certo solo negli Stati Uniti, quel preoccupante corto-circuito che mischia attivismo sociale e politica e rende personalità come quella di LeBron James dei politici a tutti gli effetti. Un vizio a monte che poi a cascata giunge alle parole di Zlatan Ibrahimovic, che non fanno altro che aggiungere un tassello a chi pretende ancora una divisione in comparti stagni tra chi può e non può affrontare determinati dibattiti.

E se la stessa politica viene ormai fattivamente padroneggiata da cantanti (negli States si parla della prossima candidatura di Kanye West) o da show-man/imprenditori come è stato nell’ultimo mandato del “POTUS”, è addirittura retorico chiedersi il motivo per cui atleti con centinaia di milioni di fan non possano esprimersi a riguardo. Anche perché è venuto meno il presupposto oggettivo e soggettivo della militanza politica pregressa, della carica istituzionale già ricoperta, del “mestiere” di politico come elitario rispetto ad altri.  E se è stato lo stesso Presidente, dal palco, a identificare negli ultimi mesi gli atleti come target principale dei suoi messaggi e come "competitors" per la semplice attività a sostegno di istruzione, accesso al voto, opposizione verso la violenza della polizia non solo di James ma anche di Steph Curry, Jaylen Brown, Gregg Popovich, Steve Kerr, intere franchigie NBA. Un Donald Trump che inizia un comizio elettorale urlando a squarciagola il nome di un giocatore di basket e non quello del suo rivale non è politica, ma è legittimazione totale della rilevanza mediatica di uno sportivo capace di abbattere le barriere e incidere in concreto nel dibattito elettorale.

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Republicans buy sneakers too è ancora d'attualità?

È storia recente quella che vede Michael Jordan esposto su temi sociali e politici e protagonista di una serie di iniziative di beneficenza che ne hanno progressivamente ripulito un'immagine spesso opportunisticamente tenuta al di sopra delle parti o, meglio, totalmente lontana dalle parti e dal focus off-court che nell'NBA di 30 anni fa non destava parimenti scalpore. La famosa frase addebitatagli nei primi anni novanta "Anche i Repubblicani comprano le sneakers" resterà ancora a lungo una macchia indelebile che per tanti atleti ha rappresentato proprio la molla verso un attivismo di diverso tipo e una maggiore presenza e incidenza nel dibattito pubblico, in tempi in cui di fatto il non schierarsi è visto esattamente come prendere una posizione e la polarizzazione di determinati argomenti non consente più, come allora, di restare abilmente in disparte lasciando che siano altri a sporcarsi le mani. Essere atleti, nel 2021, è qualcosa che confinare al rettangolo di gioco qualunque esso sia rappresenterebbe una banale e approssimativa limitazione.

E, aggiungiamo, parlare di istruzione o di lotta al razzismo, sollecitare la popolazione sull'importanza di andare a votare, costruire scuole e palestre, non può assolutamente essere addebitabile a un'attività di tipo politico. Lebron James, come tanti suoi colleghi, non è parte di un'ideologia, ma è più semplicemente promotore di alcuni valori che dovrebbero essere imprescindibili per ogni uomo di questi tempi. La sua non è politica, ma consapevolezza di avere i mezzi per trasmettere qualcosa di positivo a questo mondo e sfruttare al massimo le proprie piattaforme per educare e sensibilizzare i più giovani ponendo l'accento sulle disuguaglianze sociali non è altro che una delle mille sfaccettature da leader a 360 gradi. Quello che forse Ibrahimovic non riesce proprio ad essere.

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