Perché ci siamo innamorati di Kobe Bryant
La carne di Kobe è riconosciuta da tutti come una delle più pregevoli, apprezzate e costose carni del mondo. L'ex cestista Joe Bryant e sua moglie Pamela Cox (anche lei con il basket nel sangue, sorella del giocatore Chubby Cox) stavano mangiando carne di Kobe poco prima di avere loro figlio, Kobe Bean Bryant, con quel pranzo nel nome, appunto.
Gli USA piangono Kobe Bryant e sua figlia Gianna che chiamavano "Gigi" ma in quella morte c'è anche un pezzo d'Italia, un pezzo bello grosso, che passa da Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia. Poi ci sono i Los Angeles Lakers in cui giocò per vent'anni. Per tutto il giorno di fronte allo «Staples Center» di Los Angeles, il palazzetto dei Lakers, si è radunata una folla commossa e silenziosa, di tifosi e non, che hanno voluto rendere omaggio al giocatore.
Ogni volte che uno sportivo sfiora i numeri del mito (e i record di Bryant sono moltissimi) un alone di immortalità lo avvolge: le giocate di Bryant (come capita per tutti i campioni) le preserviamo nella memoria perché è un modo per preservare noi nel periodo in cui lo ammiravamo giocare. Rendere immortale un giocatore è il tentativo, goffo e emozionante, di renderci immortali, noi con lui. Potrebbe essere un giocatore qualsiasi di uno sport qualsiasi, in fondo è la trasfigurazione di quel nostro spicchio di vita, con il sottofondo del ferro colpito dalle schiacciate di Kobe.
Forse anche per questo ogni volta che un campione si ritira il suo addio viene celebrato con commozione: nel 2016 Bryant ottenne riconoscimenti dagli avversari per tutta la stagione, in tutti i palazzetti. I tifosi avversari in piedi a applaudire per dirgli “Kobe, abbi cura del pezzo di me che ti lascio portare via”. Una cosa così. I giocatori come Kobe hanno troppo genio per appartenere solo a una tifoseria, i campioni sono anche dei loro avversari e per questo la morte di Bryant è un lutto collettivo. Le sue lettere d'addio sono diventate un cortometraggio da Oscar, del resto i miti entrano dappertutto: in Star Wars c'era un droide che si chiamava K2B4, tutto giallo e viola, in onore di Kobe.
“Non importa quanto segni. Quello che conta è uscire dal campo felice”, aveva detto Bryant. Ci sono professionisti che sono professionisti perché professano ciò che sono nel proprio mestiere, Kobe era così. Poi ci sono le accuse di stupro, poi ritirate, ci sono le tante iniziative di beneficienza e c'è quell'amore per l'Italia che ci ha concesso di essere in cima al mondo per quello spazio nel cuore della leggenda.
Black Mamba è morto. "Caro basket, dal momento in cui ho cominciato ad arrotolare i calzini di mio padre e a lanciare immaginari tiri della vittoria nel Great Western Forum ho saputo che una cosa era reale: mi ero innamorato di te”, scrisse nella sua lettera d'addio. Caro Kobe, anche qui fuori è pieno di tuoi innamorati.