Magic Johnson torna: Farò i Lakers ancora grandi
Make the Los Angeles Lakers great again. Per questo l'hanno chiamato, a due giorni dalla trade deadline. Hanno dato il benservito a uno dei dirigenti di maggior successo nella storia della franchigia, Mitch Kupchak, e l'hanno sostituito con uno dei più grandi giocatori di sempre. I Los Angeles Lakers tornano ad affidarsi a Earvin “Magic” Johnson, nuovo presidente delle operazioni legate al basket dei gialloviola, il ruolo più alto nella gestione sportiva del club. È l'ultimo capitolo della rivoluzione avviata da Jeanie Buss, la figlia dello storico patron Jerry, che nel 1979 portò Magic ai Lakers come prima scelta al draft. “"Ho preso una serie di decisioni che credo restituiranno ai Lakers la grandezza che mio padre aveva dato loro e che i tifosi pretendono – sono le parole di Jeanie nel comunicato con cui annuncia la rivoluzione societaria -. Il mio obiettivo è che tutte le persone associate ai Lakers remino ora nella stessa direzione, quella che io e Magic decideremo”.
Quando Magic "salvò" l'NBA
A parte la madre, che continuò a chiamarlo junior, e la moglie Cookie, l'unica per cui è ancora solo Earvin, Johnson è diventato un vero e proprio personal brand con quel soprannome, fra i più azzeccati nella storia dello sport. Nasce tutto per caso, quando Fred Stabley, cronista del giornale locale Lansing State Journal, resta folgorato da quel quindicenne capace di una prova da 36 punti, 16 rimbalzi e 16 assist alla Everett High School.
Tra i 50 migliori giocatori nella storia dell'NBA, ai Lakers Johnson ha rivoluzionato il basket. È diventato il play più alto nella storia della lega sportiva più ricca del mondo, è stato votato tre volte miglior giocatore del campionato e altre volte MVP delle finali. Oro olimpico col Dream Team a Barcellona, Johnson ha cambiato il futuro della lega, sull'orlo della crisi e del fallimento alla fine degli anni Settanta, terminata l'epoca dei Celtics di Bill Russell e Bob Cousy, dimenticate le gesta di Wilt Chamberlain e Bill Russell. Ai Lakers non basta Kareem Abdul Jabbar, e nemmeno all'NBA in cui inizia a farsi largo come responsabile dell'ufficio legale il futuro commissioner David Stern. In quel 1979, però, la stagione NCAA regala l'epifania di quella che sarebbe stata una delle più grandi rivalità nella storia del gioco.
Per la prima volta si incontrano infatti Magic Johnson incontra Larry Bird, il cowboy dell'Indiana con i genitori separati, un padre suicida, e una voglia di emergere come forma di riscatto. Earvin, tutt'altro carattere, è la stella di Michigan State, anche se con medie punti inferiori rispetto a Bird (che viaggia sui 33, con oltre 13 rimbalzi alla seconda stagione di college). Quella finale la vincono gli Spartans di Johnson, sfavoriti alla vigilia. Il duello attira uno share televisivo del 24,1% (in pratica un americano su quattro vide la gara in diretta), con punte sino al 38%, un caso unico nella storia del basket universitario.
L'All Star Game del 1992: gli USA e l'AIDS
Il vero miracolo, però, Magic Johnson lo compie all'All Star Game del 1992, a Orlando. Pochi mesi prima, ricorda sul Corriere della Sera Giuseppe Sarcina, era diventato “la prima celebrità planetaria a presentarsi, all’apice della fama, davanti a un microfono per dire: sono sieropositivo. Il primo ad aprire pubblicamente i cassetti della sua vita privata, a spiegare che aveva contratto l’infezione Hiv in una delle sue infinite avventure con le donne. Era il novembre del 1991: si era sposato due mesi prima con Kelly, che era incinta. Poteva essere la fine di tutto: la famiglia, la carriera”. E invece sarà solo l'inizio.
“All'epoca, pensavamo che sarebbe morto di AIDS, che al massimo sarebbe sceso in campo per un cameo” ricorda il co-fondatore degli Orlando Magic Pat Williams. Invece, in quel memorabile All Star Game, Orlando si trasforma nel posto in cui le stelle NBA fanno più di tutti gli immunologi e i biologi del pianeta per educare il pubblico americano sull'HIV. “Nessuno sapeva, nessuno capiva la malattia” ammette il giornalista Brian Schmitz che seguì l'evento per il Sentinel. “Pensavamo che fosse una sentenza di morte”.
Anche i giocatori hanno paura. La questione è delicata, raccontava Mark Price, allora ai Cleveland Cavaliers. “Magic Johnson era un giocatore popolarissimo, se avessi detto qualcosa di negativo su di lui sarei stato crocifisso”. Ma anche Karl Malone, star degli Utah Jazz, è contrario: teme che tagli, lividi e ferite, normali in un incontro di basket, possano favorire il contagio della malattia.
Stern, invece, dà il suo storico consenso. E Magic gioca meglio di come abbia forse mai fatto. Sfida Michael Jordan, stampa un leggendario tiro da tre saltando all'indietro sul suo ultimo tiro e a 14 secondi dalla fine il mondo si ferma. Orlando si ferma, compagni e avversari, stelle dell'Est e dell'Ovest, si fermano e l'All Star Game diventa una gara di abbracci. È il finale perfetto della storia.
“Prima di Johnson c'era stato Ryan White” racconterà Stern anni dopo, un tredicenne escluso dalla scuola perché malato che ha commosso la commissione per l'AIDS del presidente Reagan. “A 13 anni ho visto in faccia lamorte. I dottori mi hanno dato sei mesi di vita e io mi sono dato obiettivi alti. Ho preso la decisione di vivere una vita normale, di andare a scuola e stare con i miei amici” diceva, anche se perfino in chiesa nessuno vuole stringergli la mano. Combatte l'ignoranza con la comprensione, ma le cose cambieranno davvero solo dopo i coming out di Magic Johnson e poi di Arthur Ashe: l'HIV non viene più vista solo come la malattia dei neri, dei drogati e degli omosessuali. “Quella partita ha fatto molto per l'HIV e l'AIDS” ha detto Magic Johnson anni dopo. “Ha dimostrato alle persone che possono continuare a vivere una vita produttiva. L'NBA e l'All Star Game di Orlando hanno educato il mondo”.
Nuovi orizzonti
Venticinque anni dopo, è il nuovo presidente del club che ha ritirato la sua maglia. Imprenditore già prima di finire la carriera, ha cominciato nel 1987 con un circuito di sale cinematografiche nei quartieri neri di Los Angeles, dove poi aprì trenta Burger King e 100 Starbucks, cambiandone musica di sottofondo e menu. “Sono felice per lui e per i Lakers” dice Pat Riley, suo ex compagno di squadra ai Lakers, oggi presidente dei Miami Heat. “Non potrebbe esserci una persona e un lavoratore migliore” conclude Riley, “per quel ruolo. Farà benissimo il suo lavoro, raggiungerà l'obiettivo”. Renderà i Los Angeles Lakers grandi ancora.