L’All-Star Game NBA è stato orribile: spettacolo deludente e ascolti in calo
Non serve ribadirlo in questa sede, quattro giorni dopo il teatrino dell'orrido assistito nella notte tra domenica e lunedì. E nemmeno occorre appigliarsi ai dati televisivi, quest'anno più bassi del solito nonostante le interazioni social siano invece ai massimi storici come fatto sapere dalla stessa NBA.
Il problema di una partita delle stelle, l'All-Star Game, tanto attesa, tanto pubblicizzata, tanto seguita e poi ancora una volta deludente, va oltre il riscontro numerico e il logico disappunto dei tanti fan che pur avendo basse aspettative – non fosse altro che il trend sullo scarso impegno dei protagonisti ormai è ben consolidato – sono usciti ulteriormente rammaricati dalla notte in bianco passata nella vana speranza che quantomeno gli ultimi minuti di gara fossero avvincenti e combattuti. Il sogno di un po' tutti noi, che davanti ai 24 migliori giocatori del pianeta bramiamo anche solo 5 minuti di seria rivalità per regalare quello che sarebbe potenzialmente il miglior spettacolo possibile a livello globale.
Tutto vano: il 184-175 finale, i 55 punti di Jayson Tatum, una carrellata di schiacciate anche bellissime ma nel più desolante deserto di una difesa più interessata a non rischiare infortuni che a mostrare una fantomatica superiorità sul team avversario (non più Eastern vs Western ma Team LeBron vs Team Giannis, ovvero i due giocatori più votati) che sembra – in assenza di un reale premio che motivi i presenti – non interessare a nessuno.
Sì, perché nonostante gli apprezzabili tentativi di far precedere la partita da un draft in diretta televisiva (lo scorso anno la gag di Kevin Durant che preferì Rudy Gobert a James Harden, dopo la rottura in casa Nets, fu simpatica) quest'anno addirittura offerto "live" a pochi minuti dalla palla a due (con nuova gag questa volta di Jokic, auto-sceltosi nel team di LBJ), che hanno di certo reso più elettrizzante un pre-gara già di suo animato dalle selezioni via voto popolare e dalle scelte dei coach con il solito seguito di polemiche, nemmeno stavolta la partita della domenica è riuscita nell'intento di offrire uno spettacolo che non definire imbarazzante è già un complimento. E di questo totale disinteresse delle superstar a giocare anche 5 minuti di pallacanestro competitiva, forse, siamo un po' tutti responsabili.
L'esasperazione del concetto tossico di vittoria
Come può, in effetti, una partita che per giunta si gioca dopo oltre 50 gare di regular season, con il rush finale di stagione alle porte, spingere i giocatori a una sorta di death-match per alzare un trofeo di fatto privo di significato? Qualcuno obietterà che l'All-Star Game non è stato sempre questo pur cascando sempre nel medesimo periodo e sempre in assenza di qualsivoglia premio per i vincitori: un palese accusa agli attuali interpreti, che sarebbero quindi semplicemente disinteressati ad offrire qualcosa di diverso da una scampagnata lunga 48 minuti.
Quello che però si tende a ignorare è che negli anni si è ormai radicato sempre più in termini di narrazione sportiva un concetto tossico di vittoria che oramai accompagna a mo' di fardello le carriere di ogni superstar della lega. Esaltato dai media USA e cavalcato a più non posso da tutti i tifosi che sul web trovano il più fertile dei terreni a portata di smarphone dove incensare o infangare i propri beniamini, è innegabile che con lo spopolare dei vari social network e con una vita pubblica dei giocatori ormai ridotta all'osso e perennemente accompagnata da telecamere e pressioni mediatiche, quell'insana abitudine di valutare la Grandezza dei giocatori dalla sola vittoria dell'anello NBA nelle Finals in programma a giugno ha finito con lo spolpare di quella fame agonistica insita in ognuna delle superstar tutta la stagione che da novembre a metà aprile finisce con l'essere un'inutile perdita di tempo.
Perché saranno poi Playoffs e Finali, naturalmente da vincere a ogni costo, a determinare in positivo o negativo il giudizio su LeBron James, James Harden, Kevin Durant o Stephen Curry. Macchine da basket, protagonisti dell'epoca più talentuosa mai vista nella lega, colpevoli di non collezionare ogni singolo anno il successo finale.
Quello la cui importanza ormai unica nel modo di raccontare lo sport consente di applicare criteri del tutto soggettivi nei discorsi sui giocatori mai sconfitti nelle 6 Finali NBA disputate, sui fenomeni rei di averne giocate il doppio senza averle vinte tutte, su quelli che ormai mezzo secolo fa hanno collezionato un numero di titoli per cui ogni confronto anche coi più grandi di tutti i tempi non starebbe in piedi. In poche parole, un mix di inesattezze figlie della rings culture che ha ormai consolidato come unico reale discrimine di Grandezza tra gli atleti il raggiungimento o meno del titolo NBA.
E in questo contesto tossico, l'All-Star Game come anche le 82 lunghissime partite di stagione regolare finiscono con il diventare un pericoloso ingombro sulla strada che porta al palcoscenico più importante e determinante: i Playoffs NBA. Diventa quindi scontato che, piuttosto che rischiare un infortunio per giocare la quarta partita in cinque giorni in casa di un team da tanking nel bel mezzo di gennaio, le superstar preferiscano il riposo.
O che, davanti alla ghiotta (…) chance di rivaleggiare in una partita senza alcun tipo di revenue (non ce ne voglia chi ritiene giustamente i soldi in palio un'enormità, ma non è il mezzo milione in più a cambiare l'attitudine di LeBron James o di Giannis Antetokounmpo), i suddetti fenomeni preferiscano esibirsi in una tristissima gara delle schiacciate senza rivali. In attesa della sirena finale e dei 3 giorni di vacanza che seguono. Siamo stati un po' tutti noi – intesi come fan NBA ormai convinti di poter valutare giocatori da tripla-doppia di media o candidati MVP per un decennio intero (vedi Russell Westbrook o James Harden) da quando e come usciranno dalla post-season, per deliberare chi sarà nel cerchio dei vincenti e chi nei perdenti – ad alimentare questo sistema che sta distruggendo tutto ciò che di storico quest'epoca avrebbe da offrire.
Conducendo indirettamente a scelte di pura convenienza chi si unisce a squadre da 73 vittorie pochi mesi dopo averle affrontate ai Playoffs, o ai super-team creati a tavolino nella speranza di unire i rispettivi fardelli e riscattare carriere da record ma senza successo finale, o appunto a una sana gestione fisica in vista degli impegni più importanti che porta a disonorare i 48 minuti partita delle stelle.
Un processo al quale esiste un solo possibile rimedio che possa ridare senso alla gara: offrire un premio che stimoli i giocatori a performare, prendendosi anche il rischio di forzare fisicamente le giocate per spuntarla alla sirena finale. Come nel passato hanno fatto i più grandi di sempre, da Michael Jordan a Magic Johnson passando per Karl Malone e John Stockton, sulle cui spalle gravavano si pressioni enormi ma senza l'eco devastante dei social e della narrazione anello-centrica che oggi ha preso il sopravvento.
Le possibili novità
Come ogni anno, il post-partita e si è trasformato in un elenco infinito di proposte per ridare senso alla gara ed evitare ulteriori scempi come quello visto domenica notte. Si passa dalla sfida ormai evergreen tra Stati Uniti e Resto del Mondo – che di fatto nulla metterebbe in palio se non una supremazia "territoriale" di cui siamo più interessati noi che i giocatori – alla possibilità di assegnare una scelta al draft o il fattore campo alle Finals NBA, qualcosa di già visto fino al 2016 con l'All-Star Game della MLB, la lega americana di baseball.
Elementi che potrebbero toccare maggiormente le corde giuste dei giocatori, o almeno così si spera. Perché assodato che non è con migliaia di dollari che LeBron James o Giannis Antetokounmpo preferiscono esporsi ad infortuni rischiando quindi di subire il giudizio tranciante da perdente in caso di infortuni o benzina esaurita a aprile/maggio, il Commissioner Adam Silver deve inventare qualcosa che ridia slancio a una gara che tra attesa e resa vede sempre più ampliarsi la forbice allontanando sempre più il tifoso dallo schermo. Non è un'emergenza, ma poco ci manca: il prossimo All-Star Game dovrà rappresentare una svolta per chiudere una ferita tra i tifosi che oggi fa più male che mai.