La profezia di Noah Lyles sull’arroganza del basket USA: i Mondiali gli hanno dato ragione
"Campione del mondo di cosa?". Quando il velocista americano, Noah Lyles, pronunciò questa frase parlando dell'ego smisurato della NBA nel mettersi in testa una corona d'alloro che va ben oltre i confini degli States (o della franchigia canadese dei Toronto Raptors), finì nel mirino della critica per aver ridimensionato l'ambito della pallacanestro a stelle e strisce.
"Qualcuno aiuti questo fratello", scrisse Kevin Durant (Phoenix Suns) sui social alimentando il dibattito su quella opinione. Il suo intervento fece da capofila a molti altri dello stesso tenore. Ma oggi, dopo la sconfitta e l'eliminazione del Team Usa per mano della Germania ai Mondiali di Basket (la finale sarà tedeschi contro Serbia) quelle parole, bollate come un sacrilegio, tornano in auge con prepotente efficacia, a mo' di esempio e profezia.
Lyles riconosceva sì il grande valore agonistico e sportivo del campionato, elogiandone molti giocatori e la capacità di attrarre i più forti talenti al mondo, ma chiarì che c'era un aspetto della questione equivoci, forse eccessivo: la squadra che conquista il titolo nel torneo di basket Usa non può, per quelle ragioni poc'anzi esposte, impugnare lo scettro di vincitore iridato assoluto. Per lui era (ed è) qualcosa di inaccettabile, ingiusto. E spiegò perché, partendo da un punto fermo: la NBA resta pur sempre un torneo nazionale.
Lo fece da sprinter che aveva infilato al collo ben 3 medaglie d'oro ai Mondiali di Atletica leggera disputati di recente in Ungheria: nei 100 (con il tempo di 9″83, migliore prestazione iridata stagionale), nei 200 e nella staffetta 4×100 metri ha brandito tra le mani i metalli preziosi lasciando alle spalle, in alcuni casi con distacchi abissali, avversari provenienti da tutte le nazioni.
Sai cosa mi fa più male? – disse in conferenza stampa -. Quando guardo le finali NBA e leggo sulle teste dei vincitori ‘campioni del mondo… Campione del mondo di cosa? Degli Stati Uniti?
Non era uno sberleffo. Pur esplicando quel concetto con accenti ironici, non stava né mancando di rispetto né rinnegava le tradizioni sportive del proprio Paese. Il suo ragionamento era un po' più articolato e si fondava su un concetto essenziale.
Non fraintendetemi, adoro gli Stati Uniti – aggiunse -. Ma gli Stati Uniti non sono il mondo! Il mondo siamo noi, qui (ai mondiali di atletica, ndr). Qui abbiamo praticamente i concorrenti di tutte le nazionalità che cercano di lottare e tenere alta la propria bandiera. Non ci sono bandiere nella NBA.