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I Phoenix Suns sono la miglior squadra NBA? La vittoria su Golden State per convincere gli scettici

La vittoria di questa notte contro Golden State fa gettare definitivamente la maschera alla squadra di Monty Williams, macchina perfetta sulle due metà campo.
A cura di Luca Mazzella
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La domanda fatta nel titolo, per certi versi, è retorica e volutamente provocatoria. Una squadra che ad oggi detiene, in coabitazione con i Golden State Warriors, il miglior record della lega (18-3), in striscia aperta di 17 vittorie consecutive, reduce da un mese di novembre da imbattuta, è chiaramente la migliore (sempre con Steph Curry e soci) dell'intera NBA in questo primo quarto di stagione regolare. Eppure, la percezione che continua ad aversi è che, nonostante il titolo di campioni della Western Conference in carica, nonostante le Finals disputate, nonostante una chimica offensiva e difensiva ai limiti della perfezione (in alcuni casi anche oltre), i Phoenix Suns continuino a non godere della totalità dei consensi tra gli addetti ai lavori e tra gli stessi giocatori, che sembrano non aver realmente davanti agli occhi il livello raggiunto dagli uomini di Monty Williams, considerati alla stregua di uno "Steven Bradbury" in versione basket per la scorsa annata con infortuni a colpire le altre contender, ma allo stesso tempo realtà più collaudata e simbiotica tra le 30 squadre della lega.

La statement-victory contro i Golden State Warriors

Nella notte, nel big-match che in ogni caso avrebbe segnato una prima battuta d'arresto nelle rispettive inerzie di Phoenix, a quota 16 vittorie di fila, e Golden State, lanciata in proiezione di un nuovo record potenzialmente storico e ancora alla portata (come fu per il 73-9 di qualche anno fa), i Suns si sono rivelati un roster egregiamente allenato, in un momento di fiducia massima, e capace di condurre il gioco nella metà campo offensiva e ingolfarlo – nel caso degli avversari – in quella difensiva, anche oltre le assenze. Nello specifico, un'assenza non da poco perché a sventolare bandiera bianca nel secondo quarto stanotte è stato Devin Booker, miglior marcatore del team. Phoenix però, senza sfiduciarsi, ha continuato a cavalcare il suo ritmo in attacco (quarto pace NBA) e soprattutto a eseguire alla perfezione il suo piano partita contro Steph Curry, relegato ad una delle peggiori prestazioni offensive della sua carriera e, in termini statistici, a una serata mai avuta prima (4/21 al tiro e 3/14 da oltre l'arco). Merito anche e soprattutto della marcatura di Mikal Bridges, forse il vero segreto di una squadra che riempie gli occhi per la sequenza di passaggi in ogni azioni offensiva o per i poetici tiri dal midrange di sua maestà Chris Paul, ma che dalla difesa sta ottenendo le risposte più importanti. L'ala scelta dai 76ers infatti (e subito scambiata per il poco memorabile Zhaire Smith) sta vivendo la sua definitiva consacrazione, con sistematici accoppiamenti alle superstar avversarie ogni notte e grazie alla sua costante attività di gambe e braccia che ne fanno un ostacolo a tratti insormontabile anche in aiuto e nelle rotazioni e non solo in single coverage. Rotazioni con cui Monty Williams ha ingabbiato Curry, braccato a turno dalla fisicità di Paul, dalle lunghe leve di Bridges o anche dalle mani a oscurare la visuale di DeAndre Ayton, superbo nei suoi continui miglioramenti. Un mix letale a cui, una volta aggiunte le triple di Jae Crowder e Cameron Johnson e l'energia portata da Javale McGee, firma fin troppo sottovalutata della offseason, oggi è dura trovare argini.

Al ritmo di Chris Paul

E pensare che la storia di questa Phoenix – fino a tre stagioni fa – non sembrava poter avere risvolti del genere. Prima dell'avvento via trade, dagli Oklahoma City Thunder, della point-guard migliore della NBA moderna (almeno nella sua accezione completa di playmaker e quindi senza includere lo scorer letale Steph Curry), Phoenix veniva infatti vista come una squadra indubbiamente di talento – non fosse altro che la coppia Booker-Ayton era da molti additata come combo dal radioso futuro – ma sera dopo sera continuava a regalare delusioni ai suoi tifosi fino al record negativo, tra gennaio e febbraio 2019, di 17 sconfitte di fila. La trasformazione compiuta con al timone Monty Williams e soprattutto inserendo al comando delle operazioni "CP3" ha rivoluzionato mentalità e fondamenta del roster, pur sostanzialmente invariato negli altri cardini del sistema. Un primo spiraglio, a dire il vero, si era già visto nella bolla di Orlando, dove ancora prima dell'avvento del numero 3 il record di 8-0, non sufficiente comunque per i playoffs, aveva in qualche modo iniziato a regalare le prime certezze a una squadra in cerca di convinzione e autostima. Ma la firma dell'ex OKC, Rockets, Clippers e Hornets ha accelerato il processo e cambiato la storia di questa franchigia. Fino a ribaltarla, passando dalle 17 sconfitte di febbraio 2019 alle 17 gioie filate di oggi.

Per chi è reduce dalle Finals, perse peraltro sul più bello e dopo essersi trovati in vantaggio 2-0, trovarsi lassù non sorprende. Lo si legge nei volti, nelle dichiarazioni, nel linguaggio del corpo dei diretti interessati, i primi a credere nel potenziale di questa Phoenix. Per chi li ha troppo velocemente considerati una meteora invece il messaggio è chiaro: oggi, meglio dei Suns, non c'è molto in NBA.

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