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I Lakers e LeBron James hanno già staccato la spina? Il record di squadra è umiliante

Il 2021-22 dei Los Angeles Lakers sembra virtualmente già finito. Un finale in qualche modo prevedibile, con un LeBron non nuovo a certi atteggiamenti.
A cura di Luca Mazzella
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Una stagione iniziata male, proseguita peggio, e che rischia di toccare ulteriormente il fondo nelle prossime settimane. Sono tempi bui in casa Los Angeles Lakers, che con la sconfitta casalinga di stanotte contro i Dallas Mavericks hanno perso la decima partita delle ultime 13, sprofondando a ben 7 gare dal record del .500, una soglia al di sotto della quale LeBron James non scende dal 2005. Eppure, tra i tanti responsabili di questa débâcle per certi versi annunciata, il ruolo del Prescelto e tutto meno che trascurabile.

Un impegno via via meno crescente

In America si usa spesso l'aggettivo "committed" per indicare l'impegno, le lealtà e l'attaccamento di un giocatore nei confronti di una franchigia. Parlare di scarso impegno quando si ha davanti un giocatore da 29 punti di media a 37 anni compiuti a dicembre e che nelle ultime 7 partite, nonostante i problemi al ginocchio, sta viaggiando a 28 punti, 9 rimbalzi e 6 assist di media con percentuali del 51% dal campo, 35% da tre e 74% ai liberi (il record dei Lakers in queste gare è di 1-6) è ovviamente una forzatura. Eppure, da qualche settimana, l'atteggiamento in campo e le dichiarazioni di James evidenziano qualche campanello d'allarme nel rapporto del numero 6 con franchigia e compagni.

Non è un caso che in America si stia addirittura discutendo di una possibile trade estiva che vedrebbe coinvolto LeBron, un qualcosa che avrebbe assolutamente del clamoroso e che necessiterebbe di incastri contrattuali troppo complessi per pensare sia davvero realizzabile. A spegnere le polemiche in realtà ci ha pensato nelle ultime ore anche l'agente di James, Rich Paul, che ha chiarito come il suo assistito intenda vestire la canotta giallo-viola fino a fine carriera, compatibilmente col fatto che James ha espresso più volte il desiderio di giocare con suo figlio Bronny, in questo momento alla Sierra Canyon School di Los Angeles e eleggibile per il draft 2024. Ma come si è arrivati a dover addirittura smentire le voci di un possibile addio di LeBron a fine stagione quando appena un anno e mezzo fa i Lakers si laureavano campioni NBA nella bolla di Orlando?

Quando lo scorso 9 febbraio, a pochi giorni dall'All-Star Game e soprattutto dalla trade deadline, ultimo termine per effettuare scambi tra squadre, i Lakers cadevano in casa per 131-116 contro i campioni in carica dei Milwaukee Bucks, LeBron aveva in un certo senso acceso un primo alert nella dirigenza. "Questo roster non è da anello", tuonò The Chosen One, che pure nella costruzione della squadra e nella sconsiderata – lo diciamo a posteriori dato che nessuno poteva prevedere così tante difficoltà anche nello scenario peggiore – trade per portare in California Russell Westbrook ha avuto un ruolo determinante, scavalcando in qualche modo la volontà di dirigenza e staff tecnico.

Le dichiarazioni di James arrivarono non a caso a ridosso della deadline, invitando il GM Rob Pelinka a considerare l'ipotesi di qualche scambio anche minore per dare nuovi stimoli a una squadra con troppe lacune per competere. Pelinka tuttavia, non intendendo sacrificare la prima scelta 2027, ultimo asset di livello nelle mani della franchigia da qui ai prossimi anni vista la spendita di scelte per portare non solo Westbrook  ma anche Anthony Davis ad L.A., sceglie di non fare ulteriori scelte avventate preferendo a questo punto terminare l'annata prima di nuove rivoluzioni.

È qui che il rapporto con LeBron sembra precipitare e con lui la parte "committed" del giocatore verso la franchigia. James approfitta dell’All-Star Game per elogiare Sam Presti, GM dei Thunder, definito "il vero MVP", e per rincarare la dose omaggia Les Snead dei Los Angeles Rams di NFL, il GM che quest'anno ha vinto il SuperBowl scambiando una serie di asset futuri per giocatori pronti e sacrificando quindi il futuro in nome del presente. Un modo pungente per rimarcare come pur di rinforzare una squadra (che lo stesso James ha contributo a creare), i Lakers non avrebbero dovuto fare calcoli sul lontanissimo 2027.

In che misura si può però davvero biasimare una dirigenza che sceglie di non compromettersi ulteriormente ammettendo in maniera implicita di aver commesso una serie di errori che non vuole ripetere? Poco, molto poco. Come non è possibile però puntare il dito contro la voglia di competere subito di un giocatore 37enne che, al netto dei problemi fisici, dimostra e sta dimostrando di avere ancora diverse cartucce da sparare quando in campo col giusto atteggiamento.

Il risultato di queste frecciate sfocia sostanzialmente in una sorta di sciopero bianco di LeBron, che gioca due pessime partite contro Clippers e Pelicans mostrando una svogliatezza mai vista prima e che, a dispetto dei numeri che restano impressionanti per una macchina ormai in moto da 20 anni ai massimi livelli, sembra intenzionato a far pesare in qualche modo alla franchigia il mancato intervento sul mercato con atteggiamenti già visti sia nella prima edizione giallo-viola (quando dopo una prima parte di stagione mostruosa il Re, reduce da uno stop per infortunio, tirò i remi in barca per forzare la trade per Anthony Davis e mettere sul mercato i vari giovani) che nell'ultima ai Cavs (2018), quando in maniera sinistramente simile a questa James rese chiara la sua volontà alle dirigenze.

Il sogno di tornare ai Cavs

A complicare ulteriormente le cose, il sito The Athletic ha poi riferito che la porta in direzione Ohio, per un ultimo romantico ritorno ai Cleveland Cavaliers dove sarebbe anche più semplice veder selezionato il figlio (altro elemento che in qualche modo non aggiunge serenità in casa Lakers, in qualche modo spettatori passivi della decisione di Lebron di accogliere Bronny in NBA) non sarebbe del tutto chiusa. Da qui, le dichiarazioni di Rich Paul che però non hanno migliorato una situazione ormai evidentemente compromessa, con la squadra in caduta libera, orfana di Anthony Davis per il prossimo mese, immobile sul mercato dei buyout dove i giocatori appetibili preferiscono comunque accasarsi in contesti con più chance di vittoria, e un coach che ormai ha deliberatamente smesso di allenare un gruppo costruito in modo troppo difforme dalle caratteristiche a lui gradite per correggere il tiro in corsa.

Una legacy macchiata?

La deriva di questa stagione, che vedrà i Lakers verosimilmente impegnati nel torneo play-in dato che è impossibile, pur impegnandosi, farsi superare da 2 delle squadre attualmente alle spalle dei los-angelini (New Orleans Pelicans, Portland Trail Blazers, San Antonio Spurs o Sacramento Kings) rischia in qualche modo, se la barca non dovesse riprendere una rotta accettabile, di rompere il legale di James con tutto l'ambiente Lakers, arrivato finanche a fischiarlo nella gara persa contro i Pelicans appunto. Play-in che potrebbero anche vedere Los Angeles trionfare, salvo poi trovarsi di fronte una delle capofila della Western Conference, ad oggi Phoenix Suns, Golden State Warriors o Memphis Grizzlies, squadre che per organizzazione e programmazione appaiono lontane anni luce dalla realtà di Hollywood. E a stagione ufficialmente finita, prevedere in che modo questa seconda parte di annata potrà incidere sulle valutazioni della dirigenza è davvero impossibile.

Seguire la volontà del Re in off-season, ancora una volta, potrebbe si riaccendere in lui la fiamma ma allo stesso tempo, visto il precedente, si tratterebbe di un rischio in bilico tra Anthony Davis e anello e Russell Westbrook e fallimento, nell'assecondare le preferenze di un giocatore che evidentemente preferisce scegliere i compagni e mai "subirli" per decisioni della dirigenza, un limite troppe volte emerso e che non sempre ha portato a risultati vincenti o comunque a sacrifici importanti delle franchigie di appartenenza, con conseguenze di non poco conto sul futuro.

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Questa stagione può avere ancora un senso?

Una squadra con LeBron James e Anthony Davis, a prescindere dalla compatibilità di Russell Westbrook coi due, non può definirsi un fallimento fin quando la squadra è ancora in gioco. E c'è da scommettere sul fatto che nessuna delle franchigie che oggi guidano a Ovest gradirebbe trovarsi davanti il numero 6 in una serie. Anche perché, con il materiale a disposizione, qualche esperimento e alcune firme meno di richiamo ma più funzionali, e in questo il quintetto della notte con Westbrook-Reaves-Monk-Johnson-James e la firma di DJ Augustin al posto di DeAndre Jordan rappresentano almeno due timidi sussulti, potrebbero dare una timidissima sterzata per provare a invertire una rotta segnata da tempo. Il tutto restando vigili sulla situazione di Vogel che, anche in questo caso in perfetto copione-James, potrebbe definitivamente salire sul banco degli imputati ed essere licenziato. Live by the King, Die by the King.

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